martedì 25 dicembre 2012

Il difficile volo di una farfalla dalle ali tarpate

MADAMA BUTTERFLY A SALERNO



La straordinaria bellezza del libretto della tragedia di Madama Butterfly splende nella semplicità e linearità della sua trama. Non vi sono guerre, non vi sono rivalità e loschi intrecci, non vi sono ambizioni né lotte di potere, non vi sono insani desideri di vendetta, non vi sono travestimenti o migrazioni di personaggi. Tutta l’opera incanta per il racconto delle passioni elementari di una fanciulla e della sua tragica evoluzione verso la maturità di donna e di madre. È appena una fanciulla quindicenne quando appare in scena, innamorata, avvezza a tenerezze sfioranti e pur profonde come il ciel, come l’onda del mare! ma ignara della natura avventuriera del suo promesso sposo. È una fanciulla devota agli dei giapponesi, ma per essersi convertita in segreto al Dio del suo promesso sposo, è rinnegata e maledetta dallo zio Bonzo: All’anima tua guasta, qual supplizio sovrasta! E’ una madre innamorata che attende suo marito, ma scopre il tradimento e l’inganno, affronta il dolore del disonore e quale forma estrema di devozione al loro bimbo, gli dona la vita ultimo e solo dono residuale, perché possa andar di là dal mare senza che gli rimorda ai dì maturi il materno abbandono. La storia, tutta la sublime storia di Butterfly, è qui, in questa semplice tragedia. Eppure la ricchezza melodica della musica di Puccini e la rara bellezza del libretto di Illica e Giacosa, trasfigurano una fragile fanciulla innamorata e primitiva in una figura femminile monumentale. Nella solitudine del dolore e dell’attesa, parlando il linguaggio delle passioni elementari quella fanciulla raggiunge la vertiginosa altezza di una eroina omerica, la quale pur attorniata dalla violenza sotterranea, subdola, annientatrice, dei suoi parenti, dei suoi aspiranti, del suo stesso sposo, irradia un senso di pacata accettazione del suo destino: l’essere povera, l’essere orfana, l’essere rinnegata. Io seguo il mio destino e piena di umiltà, al Dio del signor Pinkerton mi inchino. È mio destino. Appare tutto nuovo, eppure il tutto è la medesima donna primitiva immutabile nella sua naturale vocazione al donare amore allo sposo e vita al proprio bimbo, come ineludibile disegno del destino.

Per far vivere una tale tragedia in cui tutto è canto e mimica, occorrono interpreti pregni di una intensa vita interiore, meditata e raccolta.

In tale regale figura, l’identificazione di Amarilli Nizza (Cio-cio-san) è totale. La consuetudine con il personaggio le consente di arricchirlo di rifiniture psicologiche, sì che gli stessi intimi moti dell’animo si colgono con una immediatezza che rifiuta ogni falsità teatrale e sono consegnati allo spettatore nella loro incontaminata verità. Alla recitazione studiata nei gesti, perfetta nella postura e nella espressione del volto e negli sguardi, corrispondono il dominio e la adesione alla parola scenica e un canto che è un pantheon di preziosità tecniche. In esso c’è spazio per il parlato, per il grido, per il legato strumentale, per il fraseggio, per l’eloquenza della pausa. Basta ripensare al suo Un bel dì vedremo bissato a furor di pubblico, per cogliere la purezza, l’agilità, la potenza espressiva che caratterizzano il suo strumento privilegiato. Incantevole il si bemolle di Io con sicura fede l’aspetto, le braccia distese in un abbraccio universale, il senso di un dolce, fidente abbandono alla grazia del Dio cui si è convertita. Autentica attrice nella simulazione delle voci e dei gesti del magistrato e del marito nella domanda dell’uno e nella risposta dell’altro sul perché dell’abbandono della moglie. Travolgente, dopo il colpo di cannone nel porto, nel credere che lui sia tornato a consacrar il trionfo del suo amore e della sua fede: la mia fé trionfa intera, ei torna e m’ama! Il finale rannicchiarsi a terra è di una raffinatezza psicologica sublime, il capo reclinato e quasi non più visibile accentua la drammaticità di un sonno presago di morte oltre la quale si intuisce la trasfigurazione della vita. Autentico momento di sublime recitazione, capace di evocare il medesimo dolce abbandono mortale della Santa Cecilia di Stefano Maderno. Straordinario momento di commozione, giustamente sottolineato da uno scroscio di applausi.

A tanta grandezza, a tanta raggiunta maturità di interprete, non corrispondono né un cast periferico, né una direzione d’orchestra né una regia di pari livello.

Difficile condividere le scelte e le note di regia di Lorenzo Amato, a motivo della non corrispondenza del risultato con gli intenti. Dice Amato nel programma di sala: “Abbiamo lavorato per sottrazione scegliendo un allestimento simbolico, allusivo, di sobria eleganza, immaginando di costruire un luogo ideale che fosse capace di proiettare lo spettatore in una scena e che gli potesse consentire di vivere in maniera intima e personale il dramma dei personaggi”. La scena scarna e niente affatto elegante, ha estraniato il pubblico piuttosto che coinvolgerlo, perché le allusioni non potevano commuovere e non hanno commosso. Se il dramma è solo della protagonista, la ragione e l’origine dello stesso sono da ricercare non dentro di lei, ma fuori, nell’ambiente sordido dei sobborghi di Nagasaki, nella opacità del mondo degli Yamadori disseminati in quella trista terra, nella veemenza dei sentimenti di tutti, ai quali fa difetto soprattutto la pietà. Un mondo povero di valori, chiuso in consuetudini ataviche che lo rendono ancora più povero e dal quale la piccola Cio-cio-san cerca di rifuggire accettando di essere rinnegata e dileggiata. Questo mondo esterno dal quale una farfalla cerca di volare, la regia lo nega allo spettatore e lo sottrae alla stessa protagonista. La quale durante l’esecuzione dello stupendo Coro a Bocca Chiusa, è lasciata ferma, in ginocchio nello stile giapponese e con le spalle rivolte al pubblico, e dunque inespressiva, laddove tutta la capacità coinvolgente del coro sta nel permettere alla protagonista di vivere il proprio sogno nel silenzio del canto ma nella eloquenza dei gesti. Un duetto musica - recitazione drammatica che viene tarpato con la eliminazione dell’azione scenica dell’interprete e, fatto ancor più desolante, viene separato dal successivo bellissimo interludio che lo segue. Amato lascia intendere che l’affidare la scena a due danzatori e mimi quando il sipario si rialza e viene eseguito l’interludio, è motivato dal voler “dar vita visivamente alla confusione di illusione e verità che si crea nella mente della protagonista”. Una lettura dalla quale fanno dissentire tutta la evoluzione psicologica della protagonista e la sequenza degli accadimenti. L’attesa con sicura fede di Butterfly non è illusione, non è percezione distorta di un moto dell’animo, è verità sofferta; l’arrivo della Abramo Lincoln non è illusione, è verità che le fa gridare con somma gioia il trionfo della sua fede e del suo amore. Il Coro a Bocca Chiusa e l’interludio successivo sono il modo con cui Butterfly vive intimamente l’attesa che si fa lunga ed estenuante, non una estraniazione nella illusione di un evento impossibile. Complice in tale manomissione indebita anche il M° Alberto Veronesi, il quale raggiunge forse nella accettazione della interruzione di tale stupendo intermezzo musicale il peggio della sua sonnecchiante direzione. Ma non è questo il solo momento. Decisamente infermo nella conduzione dell’orchestra durante il sogno di Butterfly Un bel dì vedremo. C’è da chiedersi quale senso abbia un’orchestra che pur chiamata ad eseguire la stessa melodia del canto della protagonista, se ne allontana progressivamente fin quasi ad abbandonarla nel momento più alto in cui elevandosi sopra la paura di Suzuki afferma la sua determinazione alla attesa con sicura fede? Analogamente latitante è apparsa tutta l’orchestra nel canto che segue l’arrivo nel porto della nave da guerra, nel momento in cui a Butterfly dopo il rifiuto dell’idea stessa di tornare al triste mestiere di ghesha che porta al disonore, l’udire il cannone del porto appare consacrare il trionfo della sua fede e del suo amore. Decisamente più efficace e comunicativa la conduzione d’orchestra durante il duetto dei fiori, nell’esecuzione del Coro a Bocca Chiusa e nella magnificenza dell’aria finale con onor muore. Una direzione d’orchestra assai discontinua dunque e certamente lontana dalla capacità di illuminare con i colori dell’orchestra la stupenda evoluzione di una piccola fanciulla emersa come bocciolo dai sotterranei di un mondo sordido, la quale nell’amore per il suo sposo e nel senso di maternità incontaminato dalla sua giovane età raggiunge l’altezza incommensurabile di una delle più alte figure femminili dell’intera storia dell’opera lirica. Una altezza cui sola e da sola è riuscita a pervenire Amarilli Nizza, mentre assai distanti e in certa misura superflui sono rimasti gli altri interpreti.

La Suzuki di Natasha Verniol è apparsa molto contenuta, quasi pigra nella gestualità, come nella scena che precede la notte di nozze. Eppure la voce era bella, vivida di un colore pastoso ben adatto al personaggio, il cui disegno è tuttavia mancato. Discorso appena diverso per lo Sharpless di Carlo Striuli. Il cantante possiede uno strumento vocale non privo di valore, tecnicamente usato con accettabile fonazione. Ma la mancanza più rilevante è stata la non trasformazione del personaggio in individuo. Il ruolo di Sharpless è un ruolo difficilissimo pur nel modesto peso specifico che gli è assegnato. Sharpless è il compagno di sollazzi del fatuo Pinkerton , ma di lui è assai più sensibile. Solo all’udire Butterfly e senza vederla, intuisce infatti che Sarebbe gran peccato le lievi ali strappar e desolar forse un credulo cuor. Nell’atto II, in tutta la scena della lettera, Sharpless deve provare non poche capacità di introspezione psicologica, arti di persuasione e attitudini all’autogoverno delle sue paure e commozioni. Con circospezione deve preparare Butterfly al non ritorno di Pinkerton e suggerirle di accogliere altre promesse di matrimonio. Il colloquio è denso di annunci dolorosi, di scoperte e reazioni inattese, di propositi di morte. In tanta ricchezza di melodie e sfuggenti momenti psicologici l’interprete di Sharpless deve sopratutto recitare, cantando con modulazioni della voce, con emissioni quasi sotterranee per dare verità ai suoi sentimenti di commozione e paura. Lui è l’unico testimone dell’immenso dolore espresso da Butterfly nella prospettiva di tornare a tendere la mano tremante a invocare pietà. È lui che si impegna di comunicare a Pinkerton di essere padre di un bimbo. È lui che da messaggero del non ritorno di Pinkerton si trasforma in messaggero della sua paternità. Personalità complessa e assai debole, che resta confinata ai margini di un racconto denso di pietà se non illuminata da una interpretazione adeguata. Illuminazione che è mancata. Inadeguata è stata anche la interpretazione di Piero Giuliacci (Pinkerton). Pinkerton è un personaggio che eccelle per la sua ostentata fatuità nel descriversi: la vita ei non appaga se non fa suo tesor i fiori d’ogni plaga, nella irrisione del corteo dei parenti di Butterfly, ma sa cogliere con trasporto sincero e delicata dolcezza la paura, la stolta paura della piccola Butterfly nella notte delle nozze e sa accompagnarla nell’estasi della contemplazione del firmamento pieno di stelle. Giuliacci ha cantato con generosità e impegno. Ma il suo Pinkerton non trasmette né avversioni né compatimenti, così inavvertibili essendo la sua fatuità come la impaziente sensualità della fine dell’atto I. Tutta la ricchezza melodica che la partitura gli assegna pare dissolversi in un forma rituale di canto senza l’intima immedesimazione dell’artista con la psicologia del soggetto.

Angelo Nardinocchi (Il principe Yamadori), Luigi Palmiero (lo zio Bonzo) e Francesco Pittari (Goro), consapevoli che il loro ruolo è più nell’azione che nel canto, caratterizzandosi attraverso essi tutto il mondo familiare e culturale da cui proviene Butterfly, si sono distinti più nell’interpretazione scenica che nel canto. Non da ultimo il coro diretto dal M° Luigi Petrozziello. La funzione del coro in Madama Butterfly è assai lontana dagli empiti eroici, dalle invocazioni patriottiche, dalla superiore attesa di un mondo purificato, ma è soltanto uno degli elementi descrittivi del mondo spirituale da cui proviene Butterfly. Tutta la parte dominante del coro nell’atto I è dedicato alle disquisizioni da cortile se Pinkerton è bello o brutto, se il matrimonio finirà col divorzio oppure no. Temi pettegoli che non richiedono particolari impegni né di canto né di recitazione. Se poi si sottrae al coro tutta la solenne meditazione del Coro a Bocca Chiusa affidata agli strumenti orchestrali, allora il ruolo e l’importanza del coro diventano assai marginali. Tuttavia va riconosciuto come il canto delle amiche nell’entrata di Butterfly, trasmetteva una compostezza serena di un addio da parte di spiriti generosi e sapienti: Gioia a te,dolce amica, ma prima di varcar la soglia volgiti e guarda le cose che ti son care!.

Con tale regia, tale direzione d’orchestra e tale cast era difficile rappresentare una Madama Butterfly superlativa. Se un naufragio non v’è stato il merito è stato di Amarilli Nizza celebrata Butterfly sui teatri del mondo, cui tuttavia sono state tarpate le ali in ossequio a una visione registica invadente e irrispettosa. Forse i registi dovrebbero avere maggiore umiltà nei confronti degli artisti e assecondarli piuttosto che tarparli. Così facendo ne trarrebbero beneficio essi stessi. Ma questo a Salerno non è successo.



lunedì 6 febbraio 2012

Sovrana prova di maturità di Amarilli Nizza, resa con avvenenza, intensità espressiva e lirico erotismo.

VERONA - TEATRO FILARMONICO

PAGLIACCI

di Ruggero Leoncavallo

Identità false e angosce vere nell’irrisolto enigma della realtà e della finzione

Il Verismo nato in Italia dopo il compimento della eroica stagione del Risorgimento, si concentrò non più sui grandi temi della Unità, della Patria, della Indipendenza ma sui temi che la nuova Italia stava evidenziando senza proclami ed eroismi, ma in forma viva e sconcertante. I temi sociali e umani legati all’irrompere della violenza privata in assenza di un ordinamento giuridico certo e funzionante, connessi al dilagare della povertà, all’imperversare di una autarchia facilitata dalla latitanza delle strutture del nuovo Stato Unitario. Temi verso cui si volsero con una attenzione maggiore e una partecipazione più solidale le varie correnti culturali. Nella letteratura operistica, il Verismo ponendosi nel solco della letteratura in prosa e registrando in aggiunta l’insostenibilità della magniloquenza delle orchestre maestose, la obsolescenza del senso metafisico della musica fantastica sorretta da trame mitologiche o sagre nazionali, privilegiò l’uso di libretti fondati su situazioni e personaggi reali, su episodi realmente accaduti in contesti ambientali e di cultura contemporanei. Esso volle tuttavia salvaguardare, come nel Verismo letterario, il principio del distacco assoluto dell'autore, che abdicando al suo ruolo di creatore della vicenda diveniva soltanto un osservatore, scientifico e impersonale. Ma se per la novellistica tale porsi al di fuori del contesto degli eventi narrati aveva senso e credibilità, per la letteratura musicale soffriva di non senso. Come poteva infatti trovare un'adesione "veristica" alla realtà, un genere artistico in cui i protagonisti cantano invece di parlare e i tempi della vicenda sono dettati non dallo scorrere immutabile del tempo, bensì dalle ragioni dell'espressione musicale? E come poteva essere imparziale un compositore chiamato a sottolineare con i temi orchestrali e con le melodie del canto l'espansione intima dei personaggi, se nella realtà ognuno si esprime senza né canto né orchestre? La intrinseca inconciliabilità del verismo letterario con il verismo musicale fu colto correttamente da Leoncavallo, il quale con uno stratagemma arguto fece precedere la sua opera da un Prologo, vero manifesto della poetica verista in campo musicale. Manifesto con cui l'autore intese esporre non solo le ragioni -l’artista è un uomo e per gli uomini scrivere ei deve-, e le fonti della sua ispirazione - al vero ispirarsi, dipingendo uno squarcio di vita- ma anche la fondamentale differenza tra fatti, tra sentimenti descritti e gli attori che li interpretano. Gli uni sono veri perché ispirati alla cronaca di fatti veri: vero l'amore, vero l'odio, veri il dolore, la rabbia, il cinismo. Ma gli attori no! Gli attori sono uomini di carne ed ossa che vestono povere gabbane di istrioni e che al pari del pubblico vivono in un mondo orfano e arcano, privo di leggi e misterioso. Pertanto di essi vanno considerate le anime e non le azioni simulate. Prologo di rara incongruenza teorica e versi assolutamente improbabili ma di sconvolgente bellezza musicale.
Eppure ignorando il Prologo Pagliacci sollecita la riflessione del rapporto tra teatro e vita, tra verità e finzione, tra identità false e sentimenti veri, nel quale il gioco scenico compenetrando i due mondi ne annulla i rispettivi confini. Se infatti nella recitazione si nasconde l'identità, e la maschera che copre il viso nasconde anche l'anima e le sue mostruosità, nei Pagliacci la maschera diviene l'identità stessa del personaggio che nella rappresentazione rivive il proprio stesso dramma. Opera dunque densa di verità che arricchite dalla poesia musicale fanno nascere un capolavoro. Un capolavoro che trasfigura con la bellezza della melodia e la ricchezza della orchestrazione l’infima miseria di un fatto di cronaca nera.
La storia di Canio, teatrante girovago, e della giovane moglie Nedda, è indubbiamente romanzata e trae dalla cronaca solo lo spunto. Sin dall'inizio, il racconto richiama alla meditazione sul difficile rapporto finzione-realtà. Canio sta presentando in paese lo spettacolo della sera quando un contadino burlone, riferendosi a Tonio, torbido e sordido personaggio, gli dice "…, ei solo vuol restare per far la corte a Nedda". Lo sguardo feroce di Canio gli fa morire le parole sulle labbra: "Un tal giuoco, è meglio non giocarlo con me! Il teatro e la vita non son la stessa cosa e se lassù Pagliaccio sorprende la sua sposa col bel galante in camera, fa un comico sermone, poi si calma od arrendesi ai colpi di bastone! Ed il pubblico applaude, ridendo allegramente! Ma se Nedda sul serio sorprendessi, altramente finirebbe la storia, ..! . Una affermazione perentoria che lascia Nedda confusa e impaurita.
Il teatro e la vita dunque non sono la stessa cosa, eppure è proprio ciò che accadrà: la compenetrazione dei due mondi in uno solo. In scena Pagliaccio dirà le parole che Canio avrebbe detto nella realtà, e Nedda nel ruolo di Colombina dirà ad Arlecchino suo amante nella commedia -A stanotte e per sempre tua sarò- le medesime parole pronunciate a Silvio l'amante vero. Sulla scena durante la commedia Pagliaccio le ascolterà come prima Canio le aveva ascoltate fuori scena. E sulla scena ucciderà la moglie, realmente, come avrebbe fatto fuori scena. In tale totale compenetrazione di immaginazione e realtà, falsa identità e angoscia vera, nella sintonia creata tra il pubblico sul palcoscenico e il pubblico in platea, si colgono la originalità incandescente e la potenza emotiva dei Pagliacci, che sviluppa egregiamente il gioco del "teatro nel teatro", di fingere una finzione che tragicamente diventa realtà.
La suggestione scenografica di tale opera nello storico allestimento di Franco Zeffirelli è di una soggiogante bellezza. Come in una cattedrale pullulano nella maestà delle navate e delle absidi personaggi biblici, così nella messa in scena del Maestro sciama la umanità eterogenea e variopinta dei bimbi, delle signore, dei travestiti, dei giocolieri, degli sposi, e dei personaggi, in tre spazi diversi: la piazza arredata con le insegne luminose dei negozi, il palcoscenico della compagnia di girovaghi, i ballatoi e i camminamenti degli abitanti all’aperto nel caldo di metà agosto. Tanta umanità e tanta ricchezza di colori e costumi sono retti con consumata maestria sì da creare il realismo della vicenda senza cerebralismi respingenti ma con pathos lirico che si fa accettazione senza riserve del mondo rappresentato. Nel II atto un fantasmagorico gioco di luci su immensi volti di clown accentua la drammaticità del dramma, cui sottrae i connotati di una rappresentazione rievocativa, per consegnargli quelli del momento vero della storia di ciascuno nel tempo e nel luogo dove esso si compie.
A tanta lussureggiante regia risponde magnificamente un cast di altissimo livello. Eccelle tra tutti Amarilli Nizza (Nedda). Irretita tra il prorompente desiderio adulterino e il tormento della propria irriconoscenza, esprime nel I atto la sua ansia di libertà nella splendida canzone Stridono lassù, liberamente, cantata con la levità degli augelli assetati di azzurro e con una gestualità che dà sostanza visiva e intensità poetica al loro incessante vagare per le vie del cielo, sfidando il vento, le tempeste e il sole cocente. Un’ansia di libertà che nel II atto la conduce verso la morte quale ultima e unica scelta catartica che possa liberare il personaggio dalla gabbia dell’essere e gli consenta di vagar per l’atmosfera, seguendo un sogno, una chimera fra le nubi d’or. Sovrana prova di maturità, resa con avvenenza, intensità espressiva e lirico erotismo. Rubens Pellizzari (Canio), ha esplorato senza eccessi gigioneschi la dolente parabola del Pagliaccio-Canio raggiungendo l’apice della sua interpretazione nel canto rassegnato dell’interprete chiamato a tramutare in lazzi lo spasmo e il pianto, in smorfia il singhiozzo e il dolor, e ridere del suo stesso dolore. Scenicamente eloquente il suo assassinio di Nedda - Colombina e di Silvio, con la finzione dell’atto come Pagliaccio, e con le pugnalate vere come Canio.
Finzione e realtà si compenetrano. La Commedia è finita!
Alberto Mastromarino, navigato interprete di tanti ruoli baritonali, ricchissimo nelle vesti del Prologo, ha saputo trasmettere il Manifesto verista con qualche accenno forse eccessivo al suo ruolo di girovago commediante. Così il suo Un nido di memorie, continuando nei meandri di un sermone dottrinale, ha perso tutta la intensità del raccoglimento lirico richiesto dal canto sorgivo dalle profondità dell’anima. Quale Tonio invece ha reso perfettamente il personaggio nella sua laida malvagità e lurida lussuria. Una menzione merita Devid Cecconi (Silvio), che con intonazioni perfette ha descritto un contadino semplice, non arrogante, non spavaldo ma sinceramente innamorato di Nedda, colpevole solo di un amore, sulla cui ingenuità si schianterà il delirio cieco di Canio.
Eccellente e perfino commovente la Direzione d’Orchestra di Julian Kovatchev. Il preludio e l’interludio sono stati i momenti più ispirati. Il lugubre suono dei corni del preludio al Prologo sul tema del Ridi Pagliaccio, suono lungo e sommesso, annuncia l’imminenza della tragedia, subdola e strisciante, quale evento simulato. Nell’interludio il tema dominante diventa invece quello del Prologo, affidato agli archi in una melodia mesta appena addolcita da soavi arpeggi. Una orchestrazione sobria, puntuale nel descrivere i momenti più convulsi e concitati dell’opera, attenta a non cadere nel roboante e chiassoso, ma anche a sottolineare i momenti di raccolto lirismo come nel duetto di Nedda e Silvio. Folgorante e impetuosa nella ripida scala di note discendenti che accompagna i protagonisti negli abissi della morte e del nulla.

mercoledì 18 gennaio 2012

Roma Palazzo Venezia

ROMA AL TEMPO DI CARAVAGGIO


L'arte come forza espressiva e risolutiva anche in campo etico


Che il barocco, e il barocco romano, non fossero espressione di una retorica vuota di senso e soprattutto di etica mi era da tempo noto. Ma non potevo immaginare che la Roma barocca potesse essere il luogo dove è nata la modernità, e forse anche se non la laicità almeno il relativismo. Pensieri così balzani mi sono venuti in mente visitando la bellissima mostra su “Roma al tempo di Caravaggio” allestita a Palazzo Venezia. Le opere esposte coprono un periodo di ca. 40 anni, attraversati da Pontefici sommi, quali Clemente VIII Aldobrandini, Paolo V Borghese, Gregorio XIV Boncompagni, Urbano VIII Barberini. Con l’Anno Santo del 1600 “il papato cattolico celebrava la riconquista del suo predominio dopo la grande paura luterana”, spiega il catalogo Skira, e Roma “diventava la capitale culturale d’Europa, popolandosi di migliaia di artisti provenienti dall’Italia e dalle grandi nazioni del Vecchio continente, Spagna, Francia, Germania, le Fiandre, i Paesi Bassi”.

Cosa avvenne? Cosa fu? Fu tutto un mescolarsi, un confrontarsi, un sovrapporsi di stili, linguaggi, esperienze, come nella Parigi postimpressionista. Forse più ancora che nel suo pieno Rinascimento, la città divenne una fucina irripetibile nella quale prese avvio quella straordinaria rinascita artistica della Città Eterna, i cui esiti saranno percepiti in tutta Europa fino alla fine del XVII secolo. Eppure non era Roma la città dove era messo a rogo Giordano Bruno e Galileo Galilei veniva condannato per le sue eretiche teorie astronomiche? Sarà pure vero che quella Roma segnata dal potere temporale tridentino fu una città “reazionaria”, ma occorre ammettere che dalla sua vicenda culturale ben distinta da quella politica prese avvio una forma di barocco liberale.

C’è infatti nella mostra di Palazzo Venezia, un quadro, “Susanna e i vecchioni”, opera prima di Artemisia Gentileschi che rappresenta il noto episodio biblico, immerso in una inaspettata e cruda sensualità, tanto da poter essere considerato quasi un evento nella storia dell’arte e del nudo. V’è poi l’“Amore dormiente” di un certo Battistello Caracciolo in cui l’erotismo omosessuale non è meno esplicito dei nudi giovanili dello stesso Caravaggio; opere assai lontane dalla rappresentazione dell’Amor sacro e Amor profano con cui Tiziano aveva riportato in un’aura di idealizzazione purificatrice anche il nudo femminile. Col nudo appare la natura morta, quale il libro legato in pergamena nella tela del sant’Agostino attribuito al Caravaggio o il grande violoncello e il Liuto della Santa Cecilia di Carlo Saraceni. Trattasi di un tema che stravolge la scala dei valori e che elevando alla dignità di primo piano l’oggetto, l’essere inanimato, rimuove la centralità dell’uomo rinascimentale. Ancora una volta il barocco romano è anticipatore. Nell’epoca della fine di ogni certezza, dispersa nelle brume negli infiniti mondi di Bruno e Galilei, l’uomo non ricostruisce più lo spazio secondo le regole intellettuali e geometriche della rigorosa prospettiva rinascimentale, ma irrompe con prepotenza con forme al servizio della vista e dei sensi. Così il rito, la cerimonia, la pompa, sostituiscono la verità, restituendone solo l’illusoria, teatrale metafora. Eppure questa gigantesca eversione avveniva a Roma, nella città dove aveva sede il papato, l’incrollabile cattedra della fede unica, nella Roma della Controriforma che fu spietata con gli eretici e politicamente oppressiva. Ma se si rivendica all’arte una propria forza espressiva e risolutiva anche in campo etico, non v’è dubbio che nel barocco romano sono attivi e fecondi valori di libertà e di laicità, fondamentali nella formazione dello spirito e del relativismo moderni.


GENOVA - TEATRO CARLO FELICE

La BOHÉME

di Giacomo Puccini

Amarilli Nizza, poetica e incantevole Mimì nella favola della gioiosa e breve stagione della giovinezza.

Ah! Mimì, mia breve gioventù! E’ il verso bellissimo di Rodolfo a Mimì che ispira Augusto Fornari nella sua luminosa messa in scena di Bohéme. La quale lontana dal rigore filologico volto a ricostruire con calligrafica perfezione ambienti, abiti, arredi di quella pur splendida stagione bohémienne, capovolge i criteri di lettura dell’opera riuscendo a offrire uno spettacolo splendido e godibilissimo. Bohéme cessa di essere la storia in musica di Mimì, fanciulla soave ma tanto malata. Essa diventa esemplificazione di quella stagione della esistenza che è la gioventù, bella ma breve. Una stagione di ardori, di amori, di fiori, di sogni, di amarezze rimate in carezze, di dolci sospiri e ostentati tradimenti. Una stagione ricca di accadimenti e scoperte da potersi raccontare come una favola. Una favola avvolgente e gioiosa, colorata dei colori della fantasia, nella quale le geometrie sono sghembe, gli abiti sgargianti e surreali, le scene carillon roteanti, i personaggi simboli della giovinezza. Quella dorata stagione dominata dalla innocenza, dalla salubre spontaneità dei fanciulli non ancora contaminata dalle degradazioni del peccato. In Bohéme non v’è personaggio che possa elevarsi per atti e sentimenti lascivi o immondi, posseduti dall’ansia del potere, dalla lussuria del piacere, dalla concupiscenza della ricchezza. In essa brilla la luce della Divina Foresta di Dante, che qual caparra d’etterna pace, nella quale l’uom per sua difalta dimorò poco, per sua difalta in pianto e in affanno cambiò onesto riso e dolce gioco>. Dunque una sorta di Paradiso Terrestre dove tutto è luce, meraviglia e <dolce frutto>.

Così la luce intensa e calda che avvolge e amalgama l’universo scenico concepito da Francesco Musante appare tradire l’atmosfera di una soffitta che dovrebbe essere fredda, tetra e illuminata dalla livida luce di cieli bigi. Ma quella luce all’inizio così inquietante, diventa sempre più vera e rivelatrice. Nel suo raggio, la finzione del teatro si eleva ancor di più raggiungendo le dolci regioni del sogno, della rimembranza, del chiarore innocente del tempo dell’infanzia, presente e vivo nella memoria dei personaggi accompagnati ciascuno dal fanciullo che fu. Un tempo passato che nella soavità dei ricordi torna a essere presente nei costumi, nei giochi, nelle compagnie. Così la tristezza e le amarezze del tempo presente, nella povertà dei mezzi, nel freddo di una soffitta, nella mancanza di prospettive, nella ricorrente insolenza dei grampi di fame, si stemperano nella scanzonata allegrezza di quattro giovani intellettuali amabilmente burloni.

In quella soffitta, scrigno di memorie e di attese, irrompe una fanciulla, bella ma di una bellezza offuscata da una terribil tosse e dal languore di una malattia mortale: una giovane innamorata di uno di quei allegri compagni. E’ Mimì, gaia fioraia, che si nutre di sogni e di chimere. L’irrompere nella favola dell’amore di una fanciulla malata, attutisce il simbolismo della regia conferendole accenti e verità non più intravisti attraverso i colori del sogno, ma palpabili e dolenti. E’ una straordinaria invenzione di regia, cui risponde con consumato magistero l’avvincente canto di Amarilli Nizza. Con una ricchezza di movenze, con eloquenti modulazioni della voce, con perfetta fonazione, con sapiente dosaggio dei piani e dei forti, Amarilli Nizza rende tangibili i frequenti passaggi dalla favola alla verità e dalla verità alla favola. Il suo “se venissi con voi?” e la successiva risposta “..curioso!.” nel duetto con Rodolfo, sono cantate con una voce civettuola, che esprime con inoppugnabile verità tutta la fragranza e le pulsioni amorose di una fanciulla ormai adulta e tesa alla seduzione. Al contrario l’aria mesta e rassegnata “donde lieta uscì al tuo grido d’amore” è cantata con un senso di distacco, patetico racconto fiabesco di un evento quasi estraneo alla storia di Mimì. Nella scena finale invece raggiunge di nuovo vertici di verità, dalla quale invece estranea è ogni favola. L’andatura della cantante affaticata dai frequenti colpi di tosse; gli occhi segnati dalle tante lacrime sparse, i brividi che la tormentano, i singhiozzi, le note lunghe per l’affanno mortale, il suo “Piangi? Sto bene…Piangere così perché?” con cui consola Rodolfo, esprimono con la consapevolezza della fine, un dolore denso di sentimenti. Sentimenti tuttavia non di ribellione e blasfemi, ma sentimenti di una angoscia, pacata e profonda, che attestano un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Il languore con cui Amarilli Nizza lascia scivolare dal letto la mano di Mimì moribonda, lentamente, direi dolcemente, ha tutta la potenza espressiva del progressivo gelo di morte che tutta la invade. La Morte, l’impietosa livella che con sé porta la vita e con la vita tutta la fragranza della gioventù. Raccolti infatti su di un carro colorato e disperso nel buio della esistenza, tutti i personaggi fanciulli vengono condotti fuori scena, verso un mondo ignoto e senza ritorno.

Alla poetica interpretazione di Amarilli Nizza, non corrisponde una interpretazione di Massimiliano Pisapia (Rodolfo) ugualmente poetica e coerente con la intuizione registica. Una fissità in tutti i passaggi dell’opera, una inespressività del canto a volta apparso anche affaticato, un certo disorientamento nei duetti con Mimì, una irrilevanza quasi totale nel canto d’assieme, hanno offuscato una voce non priva di bei colori. Più che ispirato è apparso distratto dalla felice intuizione registica. Il suo Rodolfo è un poeta, ma dimentica di esserlo, mancandogli l’anima nobile, visionaria, vibrante nella bellezza inebriante delle rimembranze, nella gioiosa attesa della stagione dei fiori. Il suo mutismo tra l’incanto dell’incontro con Mimì nel buio di una soffitta e il dolore lacerante per la sua fine prematura, relegano negli spazi disabitati e polverosi uno dei personaggi maschili più ispirati della produzione pucciniana. Peccato! Assai meglio, seppure assai lontani dalla luminosa interpretazione della Nizza, gli altri interpreti maschili. Roberto Sérvile era il pittore Marcello. Le sonorità luminose che la partitura gli affida nel duetto con Musetta in reciproca, armonica tensione con le opposte energie di Mimì e Rodolfo, sono splendide pennellate che descrivono la trama corrusca e indefinibile della vita. Su tanta dovizia di materiale musicale avrebbe potuto costruire molto meglio il personaggio del pittore se forse le sue condizioni fisiche fossero state perfette. Christian Faravelli, il filosofo Colline, canta la sua aria Vecchia zimarra come dolente ma orgogliosa meditazione sui giorni lieti, trascorsi assieme da amici fedeli. La pienezza del canto da basso, in un dialogo immaginario, l’aristocrazia solenne al centro della scena, conferiscono al dolore dell’addio e alla fierezza di una onestà mai contaminata da ricchi e potenti, la commovente eloquenza di una serena, filosofica accettazione del soffio crudele della esistenza. Dario Giorgelè (il musicista Schaunard) seppur privo di parti solistiche ha dato prova di mezzi vocali ragguardevoli e ha offerto una interpretazione credibile e in armonia con l’allegra, ristretta compagnia. Alida Berti nei panni di Musetta ha governato la bella voce di una bella ragazza. Tuttavia il suo valzer al Caffè di Momus, nel quartiere latino di Parigi, nella interpretazione registica perde il senso che Puccini le ha affidato. La ammiccante atmosfera alla Belle Epoque, a quel mondo seducente nel rinnovato incanto di una nuova femminilità, che cerca di affermare il ruolo della donna-amante, corteggiata, inseguita, eroticamente inquietante, si dissolve nei meandri delle reminiscenze fantasiose e perde la irrompente forza di una testimonianza di un periodo storico inoppugnabilmente vero. Forse nel secondo quadro dell’opera la lettura registica di Fornari si allontana dalla visione di Puccini, che in quella lettura appare disperdersi.

Alla direzione musicale di Marco Guidarini va riconosciuto il non irrilevante pregio di essere stata fedele alla partitura pucciniana, senza tuttavia tradire la intuizione registica. Così l’orchestra straordinariamente ricca di colori ha dato vivacità descrittiva alle diverse scene con la bellezza di una musica impressionistica. Nei frequenti momenti di ripresa delle melodie del primo quadro, il risalto strumentale irradiato dal languore soffuso degli archi dava ragione e spiegava il perché la regia avesse privilegiato il racconto dell’opera come il racconto di una favola o di un sogno. Seppure a tratti troppo invadente la spazio fonico delle voci, la direzione è stata corretta, raggiungendo nel finale ritmo cadenzato degli ottoni lugubre e solenne, una forza espressiva di rara intensità emotiva.

Uno spettacolo coinvolgente che il pubblico ha apprezzato e premiato con applausi frequenti e alla fine scroscianti.

martedì 20 dicembre 2011

LEIPZIGER OPERNHAUS

MACBETH

di Giuseppe Verdi

Con la magia di un canto di scultorea bellezza nella più cupa e sgomenta opera di Verdi e grazie a una vibrante interpretazione, Amarilli Nizza si rivela la più ispirata, completa e affascinante Lady di questi anni.

La immensa grandezza del Macbeth di Shakespeare risiede nel meraviglioso racconto di temi come la solitudine, la paura, l’angoscia, l’allucinazione, l’ambizione, che si intrecciano e si riflettono in un complesso gioco di psicologie contrapposte. Temi che trovano una sintesi sovrana nel tema del Male. Il Male che esemplificato nella sfrenata, libidinosa ambizione di potere, è descritto nel suo cammino distruttivo, analizzato nella sua natura e negli strumenti con cui inonda di iniquità l’intera vicenda umana. Il Male che assume forme tangibili e comunica paurosamente le potenzialità negative dell’animo, illumina le forze tenebrose che scatenandosi possono dischiudere l’angosciosa prigione di dubbi, di paure, di allucinazioni nella quale ciascuno può annientarsi.
Ma pur se esplorato nella sua cosmica dimensione, il Male rimane tema non fine a se stesso. La sua analisi e rappresentazione diventano analisi e rappresentazione della Storia colta nella sua tragica sussistenza: continuo conflitto di opposti nello scontro delittuoso cui l’uomo e le sue idealità sono perennemente condannati. La conflittualità e la contrapposizione violenta sono difatti i pilastri di tutta l’opera. Come il Male è contrapposto al Bene, così il Cielo è contrapposto all’Inferno, il naturale al sovrannaturale, il giorno alla notte, l’azione alla inazione, la realtà alla allucinazione, gli uccelli della notte a quelli del giorno.
In una foresta di malvagità così folta è lecito chiedersi quali siano le forze da cui tante malvagità traggono origine e ispirazione: sono le forze aberranti e distruttive interne all’uomo, che lastricano di furore e di sangue, di rivoluzioni e di guerre il cammino della Storia, o sono Potenze infernali esterne e invisibili che lo attraggono con falsi ed equivoci vaticini e lo conducono alla perdizione perpetua? E’ il Macbeth un dramma di speranza o disperato?

La risposta proposta dall’allestimento di Lipsia è il ricondurre il Male del mondo al disegno malefico di forze esterne allo spirito umano. Forze occulte che con malvagia irrisione trasformano la Storia in un funesto gioco di annientamenti progressivi. Forze indecifrabili, ambigue, bolle eteree, come le Streghe asessuate cui Banquo si rivolge insicuro “dirvi donne vorrei, ma lo mi vieta quella sordida barba”. Forze nel dominio delle quali entrano via via le menti in un groviglio di condizioni, che sottraendo a ciascun personaggio la sua propria percezione dell’essere e svuotandolo della propria identità, lo trasforma in una sorte di burattino esecutore incosciente di azioni e misfatti da lui stesso incompresi. Così la realtà si fa pura immaginazione e ogni azione è resa farsa di un racconto di un povero idiota, vento e suono che nulla dinota!
Uno spettacolo messo in scena già nel ’99 e che nella rottura di assetti registici tradizionali, intende rendere testimonianza alla tumultuosità degli avvenimenti successivi alla caduta del Muro di Berlino. Evento che germogliato a Lipsia con il cumulo di macerie ideologiche e di simboli, con la fine di una menzogna, il rovesciamento di valori, la crisi di ogni rappresentazione che ambisse a descrivere la mente con la sola forma, aveva completamente rigenerato la spiritualità e la genialità creativa di ogni artista. Così il Macbeth di Peter Konwitschny diventa un teatro dei burattini, nel quale le baldorie irridenti delle Streghe si trasformano in un’orgia di assassinii simulati, morti apparenti, resurrezioni improvvise, banchetti di sesso, e si concludono con l’esultanza corale come di liberazione da un incubo trascorso. Straordinario e coinvolgente è infatti il sublime coro Patria oppressa cantato non come aspirazione ma come obiettivo raggiunto, commovente ricordo della patria non dolce madre conversa in un avel, ma madre che al venir del nuovo Sole accoglie nel suo grembo sposi e prole in un canto di vittoria che illumina i cuori e le menti, così come le luci di sala che progressivamente si accendono sugli spettatori.

Uno spettacolo che seppur datato di 12 anni, riesce a trasmettere tutto il fascino geniale ed eloquente con cui fu concepito. Merito delle maestranze ma soprattutto dei due interpreti principali Amarilli Nizza (Lady Macbeth) e Marco di Felice (Macbeth) che hanno saputo cogliere l’originalità della intuizione del regista e ad essa uniformarsi nella voce e nella azione scenica. Soprattutto Amarilli Nizza la quale ha profuso la sua voce con purezze e misura di accenti nelle fasi di lirismo, è stata vertiginosa nelle cabalette pur sempre attenta e rigorosa nella adesione del canto alla parola e della parola al momento psicologico. Il suo Che tardi? esprime tutta l’impazienza dell’ascesa al trono, mentre la “a” lunga e aperta di Ascendi a regnar trasmette lo stupore di fronte alla titubanza imbelle dello sposo a compiere una azione che ha come premio nulla meno che il regnare. Inquietanti la mimica e la dizione della frase Duncan sarà qui?...qui? qui la notte? con cui Lady Macbeth rispolvera la mente e prova la maturazione del disegno di uccidere il re Duncan. Tremenda la successiva invocazione Or tutti sorgete ministri infernali, la cui complicità potrà incorare il suo sposo a impugnare il pugnale senza tremori. Magica, di una magia contagiosa ed elettrizzante, nel duetto successivo alla uccisione del Re. All’orrore di Macbeth nel guardarsi le mani insanguinate e al suo tormento per non aver pregato con le guardie, risponde ripetendo tre volte Follie! Tre frustate al burattino fanciul vanitoso che nel ricordo dell’assassinio ha perso il sonno, teme ogni rumore, trema di fronte a ogni ulteriore azione criminosa. Altra e alta poesia interpretativa è la meditazione La luce langue,…. meditazione solitaria e solenne che le note lunghe dilatano nello spazio cosmico e che atterra nella constatazione della necessità di nuovi delitti. Con una ricchezza di movimenti corporei e smorfie facciali, esaltati dall’inseguimento della corona che le rotola lontano, esprime la voluttà del possesso del soglio e dello scettro. Il canto e le fonazioni quasi sillabate, sono i sintomi della decomposizione della mente non ancora compiuta ma prossima al culmine della follia autodistruttiva. Prima di tale momento tuttavia la regia concepisce la scena del banchetto sul catafalco di Banquo. Se le allucinazioni di Macbeth possono rendere visibile il fantasma di Banquo, il suo catafalco può essere reso credibilmente il gran tavolo del banchetto imbandito per l’ascesa al trono di Macbeth grazie all’assassinio del Re Duncan. Nella ripresa del brindisi per dar senso al canto Folleggi e regni qui solo amor su di esso Konwitschny scatena con una danza con pochi veli la sensualità blasfema della Lady. In tale danza ispirata forse all’espressionismo di Otto Dix nella dovizia e nei colori dell’abbigliamento, caricata di espliciti riferimenti erotici, Amarilli Nizza raggiunge uno dei momenti più esaltanti dell’opera in cui canto e recitazione si fondono in un connubio eloquente del medesimo gaudio orgiastico del potere e del sesso. Gaudio da cui l’angoscia delle apparizioni di Banquo definitivamente emargina Macbeth, irretito nella sua impotenza e nel bisogno di interrogare ancora le streghe sul suo futuro. La follia di Lady Macbeth progredisce ancora e si scatena negli insulti Vergogna, signor, Spirto imbelle! mirabilmente scagliati dalla Nizza quasi parlando, in una esplosiva miscela di apparente coraggio e autentico terrore. Un terrore che sembra dissiparsi nel racconto delle streghe che assicurano Macbeth Te non ucciderà nato da donna e ancora più rassicurante Invitto sarai finché la selva di Birna contro te non mova. Un racconto che la Lady attende con impazienza e quasi impone con l’incalzare del Segui pronunciato tre volte con un crescendo di imperio quasi ascesa alla certezza che l’impresa iniziata col sangue, nel sangue si compirà e lei sarà regina per sempre. Ma è una rassicurazione che si trasforma immediatamente nel delirio di altri stermini, dopo la confessione di Macbeth che l’apparizione di Banquo gli ha pronosticato che la sua stirpe regnerà. L’orgia di assassini e di sangue raggiunge il parossismo e sottrae alla Lady la lucidità dell’essere. Svuotata del tutto, con gli occhi spalancati ma non vedenti, appare tetra in volto, una testa dondolante come bambola abbandonata dal burattinaio, un incedere verso una destinazione indefinita e una pallida candela in mano a illuminare un cammino di distruzione. Nella solitudine della notte, in un soliloquio che pare voglia misurare l‘abisso dell’ignoto e purificarla dalle infamie sanguinose, ripensa con stupore Chi poteva …tanto sangue immaginar, e cerca una qualche forma di impossibile consolazione. Nella alienante follia trova ristoro nella banale constatazione che dalla fossa chi morì non surse ancora. Frase ripetuta due volte e la seconda volta con accentuata irrisione, quasi a deridere delle sue paure e della fatuità del credere nella capacità di agire di chi giace ormai nella fossa. Così consolata, recita ma non canta Andiam Macbetto, chiudendo la sua parabola esistenziale con la stessa recitazione con cui aveva esordito nella lettura della lettera Nel dì della vittoria,….

Così con la magia di un canto di scultorea bellezza nella più cupa e sgomenta scena di un'opera ancor più cupa, Amarilli Nizza conclude la sua interpretazione di Macbeth provando d'essere la più ispirata, completa e affascinante Lady di questi anni.

sabato 29 ottobre 2011

TEATRO MASSIMO di PALERMO

IL TROVATORE

di Giuseppe Verdi
La tremenda eco di un amore filiale e di un amore materno annientati nel rogo

Il Trovatore è dramma truce, denso di orride reminiscenze, di passioni forti e brucianti, di false morti e improbabili riapparizioni, tetro di ombre scure, illuminato solo da bagliori di fiamme distruttive. Un dramma inverosimile, un groviglio di episodi difficili da sciogliere nella loro vertiginosa complessità, su cui tuttavia si elevano la straordinaria ricchezza melodica, la fiumana di musica, la immensa statura di Verdi che scrivendo musica se ne liberava. E per liberarsene ogni intreccio era bastevole. La vendetta, l’amore, le battaglie, le vocazioni monastiche, le carceri, i roghi, gli avvelenamenti, gli equivoci banali e improbabili, di cui il Trovatore trabocca, sono solo pretesti per generare melodie. Senza connessioni, senza una sequenza che dia continuità al racconto e vigore ai personaggi, ambientato in una società ancestrale, dominata dalle ossessioni di presenze demoniache e di streghe dai poteri diabolici, una società nella quale la nobiltà conserva intatti poteri e privilegi, Il Trovatore è l’epopea del Verdi che sa rendere ardenti di musica anche ceppi accesi. Eppure nella miscela di temi sconnessi del libretto, è possibile cogliere nel tema dell’amore filiale e materno un tenue filo di coerenza e connessione.
Il Trovatore appare un viaggio negli abissi della maternità, insopprimibile vocazione di ogni donna all’amore verso chi l’ha generata e verso chi ha generato. Vocazione esaltante e dolente splendidamente evocata dalla canzone di Azucena, Stride la vampa. Una canzone mesta, una vibrante descrizione pittorica del delirio assassino di una folla indomita, attraverso la quale discinta e scalza sua madre è spinta al rogo. Circondata da scellerati sgherri la misera vittima riesce solo a gridarle singhiozzando Mi vendica. Un grido che in Azucena lascia un’eco eterna e spettrale, tale da spingerla a rapire il figlio del vecchio Conte per bruciarlo nella stessa fiamma di sua madre. Ma nel delirio dei sentimenti, nella ferale visione del rogo, nel rogo getta il suo proprio figlio. Tragico errore che aggiunge alla angoscia di una vendetta non compiuta, la allucinante colpa di una maternità infanticida. Con Azucena resterà Manrico, altro figlio del vecchio Conte, che lei fedele alla vocazione alla maternità alleverà quale tenera madre! Una vocazione forte seppure contaminata dalla iniqua speranza di poter attraverso lui vendicare la sua propria madre. Mi vendica, è infatti la stessa, tragica implorazione di Azucena a Manrico, in una scena surreale dominata dalla allucinazione dell’amore di figlia che offusca l’amore di madre. A un duetto così pregno di echi di condanne eterne, di desideri empi di vendetta, seguono due scene stupende nella bellezza del canto: la scena della clausura di Leonora che crede alla falsa morte di Manrico in battaglia, e la scena del fallito tentativo del giovane Conte di Luna di rapirla al chiostro. Scene che lasciano il percorso di Azucena nella nebulosità di una evoluzione indefinita. Essa riappare infatti larva umana in prossimità dell’accampamento del Conte. Interrogata da dove venga risponde il tetto di una zingara è il cielo, sua patria il mondo. Sintesi tragica di tutto il dramma della sua esistenza e della sconsolata visione della stessa, sospesa sulla consapevolezza ingenua ma vera della contingenza del mondo. Il suo errare, ora, orfana del figlio cercato invano, è il pellegrinaggio tormentoso di una mamma non più mamma, deserta nel deserto di un destino ingrato. Eppure in quel cumulo di memorie avvilite si leggono la tragica e solitaria grandezza di una madre nel saper aggirare i labirinti dell’esistenza, sola nel dolore ma non arresa alla ineluttabilità del fato. Azucena, è l’emblema del divino mistero della maternità contaminata e frangibile, che forte della sua fede nel Dio de’ miseri e nel Dio vendicatore, non ha e non ha bisogno di competizioni. Al Conte che avendo riconosciuto in lei chi il bambino arse! la condanna al supplizio della pira, risponde con spavalda certezza Dio ti punirà!. E’ l’impotente rivolta di una zingara emarginata contro una società soprafattrice in cui il potere di vita o di morte appartiene non alla legge ma al signorotto ed è tramandato di generazione in generazione. Verdi che aveva colto nelle opere precedenti il tema della schiavitù dei popoli, affrontato con immenso successo il tema della patria e delle libertà perdute, appare nel Trovatore aver dimenticato l’empito eroico e gagliardo che pochi anni prima aveva suscitato in lui la fine dei poteri assoluti. V’è solo un sussulto nel Conte quando condannando Manrico alla scure e Azucena al rogo si domanda: Abuso io forse del poter che pieno in me trasmise il prence? Amaro interrogativo che lascia ancor più emergere la arretratezza storica e culturale del libretto. Eppure tra questi rovi di storia e cultura si elevano memorabili arie e cabalette, che stupendamente descrivono la supremazia della libidine amorosa sull’appagamento, la morte come unica alternativa all’amore, l’inganno meditato e tragico. Temi tutti, retaggio di un romanticismo che nell’anno del Trovatore (1853), dopo le tremende prove di rivoluzioni e guerre d’indipendenza, ha definitivamente perduto il suo fascino attrattivo per dar spazio alla verità vissuta, al documento di vita, a quello che di lì a poco sancirà il trionfo del verismo. Forse consapevole di questo, la scena di Azucena e Manrico assieme in carcere in attesa di esecuzione, è la più verosimile. L’ossessione del rogo, martirio della madre, e ora suo stesso martirio, atterrisce Azucena che invoca Manrico di sottrarla all’orrida sorte della sua stessa ava. Il duetto con lui, nella dolce rimembranza dei monti, della melodia riposante del liuto, crea una atmosfera di estasi sognante che allontana il tempo e il mondo presente annullando le tristi immagini dell’orrida fiamma. Interludio di dolce sopore, ma breve. L’istante della vendetta giunge con la condanna alla scure di Manrico. Trascinata dal Conte ad assistere all’orribile esecuzione, Azucena gli rivela che costui era suo fratello. Un bagliore sinistro di gioia esplode nel grido liberatorio finale Sei vendicata, o madre! Ma è una gioia incompiuta perché la scure cadendo annienta e per sempre il suo amore materno. A tanto e così complesso personaggio Mariana Pentcheva ha cercato di dare sostanza visiva e verità scenica. Aveva a disposizione una voce adatta al personaggio, cavernosa, possente nel registro grave e capace di esplorazioni nel registro acuto. Con tale strumento il suo canto è stato apprezzabile sul piano tecnico, ma assai povero nella costruzione del personaggio. La tormentata vicenda esistenziale di Azucena, le sue allucinazioni, la sua tragica confessione, sono apparse dissolvenze appena avvertite. La Pentcheva ha cantato ma non ha recitato. Così i suoi momenti più alti perdendo tutta la potenza comunicativa hanno spinto lo spettatore in un gelido distacco. E’ quanto accaduto con la canzone Stride la vampa e il successivo Condotta ell’era in ceppi. Due momenti che si fermano sulla soglia di due aree ben cantate, senza però divenire il racconto accorato e coinvolgente di una storia funesta che ha reso la sua esistenza orribile allucinazione del rogo. Se tutta la impalcatura del libretto è fermamente sorretta dalla figura di Azucena, è difficile per gli altri interpreti costruire una personalità autonoma, inserita nel gran rivolo della storia dominante, basata solo sulle melodie della partitura. V’è ampiamente riuscita Amarilli Nizza (Leonora) la quale sin dalla prima romanza Tacea la notte placida inizia la esplorazione costruttiva di sé fanciulla amata nel passaggio Un nome…, cantato con dolcezza e ansietà, e il successivo il nome mio! reso con fierezza e stupore. La pronuncia della frase finale Al core, al guardo estatico, la terra un ciel sembrò, delinea magistralmente il languore gioioso, il turbamento virginale di una fanciulla al canto d’amore di uno sconosciuto guerrier incontrato a un torneo e mai più rivisto. Innamorata di Manrico in modo già convinto e inebriante profeticamente conclude S’io non vivrò per esso/ per esso io morirò. Straordinaria la fonazione dell’io ripetuto due volte, mesto e rassegnato il primo, quasi gioioso il secondo. Una profezia della quale la fanciulla coglie la intensità, quando apprendendo che il suo amore per Manrico è per lui una condanna a morte, invoca su di sé il furore del Conte Vibra il ferro in questo core/Che te amar non vuol nè può. L’angelica purezza, il candore immacolato con cui è cantato il suo turbamento amoroso, sono il primo tratteggio di un personaggio incarnazione dell’ideale, lucida esemplificazione della straordinaria potenza dell’amore quale condizione della esistenza stessa. Al falso annuncio della morte di Manrico, Leonora infatti non trova in terra per sè un riso, un fiore , una speranza!. L’unico rifugio è la clausura, luogo di penitenza e di attesa di un ricongiungimento in cielo con il perduto bene. Il perduto è cantato con una voce appena emessa, dolente e rassegnata testimonianza della inconsistenza della vita senza amore. Ma la mestizia si trasforma in giubilo, in sovrumano incanto all’apparire inatteso di Manrico. Un incanto avvertito con incredulità e sospensione nella bellissima chiusa Sei tu dal ciel disceso o in ciel son io con te! in cui la gioiosa elevazione della voce verso gli acuti è la consolante ascesa verso beatitudine del Bene ritrovato. Il personaggio di Leonora è ormai compiutamente delineato nella sua siderale distanza da Azucena. Azucena è madre ferocemente colpita in cerca di vendetta, Leonora è una fanciulla innamorata che teme per il suo amore e senza esitazioni si prodiga per preservarlo.

Nel canto della Nizza il forse della frase Salvarlo io potrò, forse, è quasi recitato; recitato con una intensità espressiva eccelsa che illumina il dubbio che l’attraversa. E’ il momento in cui tutto il giubilo dell’amore si trasforma in sospir dolente e lo spirito coglie nella prigionia di Manrico le inesorabili tetre luci di cui aveva già avvertito l’opprimente presenza. A lui si rivolge Leonora con un canto che la Nizza eleva alla poesia della pittura impressionistica con l’ondeggiare della voce sulle “i” della frase Aura che intorno spiri/---arreca i miei sospiri. Dal contrasto tra l’intensità di un amore generatore di una gioia che agli angeli sol è provar concesso, e le rivalità fratricide che ne impediscono il godimento, scaturiscono la sublime corale preghiera del Miserere per l’alma di Manrico e l’enunciazione eroica: O col prezzo di mia vita /la tua vita io salverò/ O con te per sempre unita/Nella tomba io scenderò. Il canto della Nizza celebra meravigliosamente la metamorfosi della fanciulla teneramente innamorata in una donna determinata a non subire le vicissitudini della sorte ma esserne artefice, libera e consapevole. Così espansa nell’ardore amoroso promette di salvare Manrico dalla furente rivalità del Conte, umiliandosi davanti a lui con la mirabile implorazione Mira di acerbe lagrime...Calpesta il mio cadavere /Ma salva il Trovator, e offrendo se stessa quale prezzo della grazia. Trattasi di un inganno meditato e messo in atto con giubilo, perché potrà dire a Manrico dì essere salvo per lei, mentre il Conte l’avrà semplice spoglia, fredda ed esamine . La doppia natura del suo gesto, che darà la grazia a Manrico e un cadavere al Conte, è resa con la smorfia perfida con cui pronuncia fredda ed esamine e l’esultanza a braccia elevate con cui si prefigura l’annuncio a Manrico, Salvo tu sei per me. La Leonora di Amarilli Nizza è un modello di soprano dalla vocalità estesissima in acuto e nei gravi, capace di unire canto strumentale ed espressività tragica, dotata di squisita ampiezza di fraseggio, agile nei passaggi di grazia come in quelli di forza. Il suo belcanto è una madia ricca di grandi arie melodiche, di cabalette dense di ostiche fiorettature, di inebrianti passaggi aerei come Sei tu dal ciel disceso, di solitarie ascensioni compiute con soave levità come nel D’amor sull’ali rosee o nel dolente bilancio finale della sua esistenza Prima che d’altri vivere... Accesa dal “sacro fuoco verdiano” forte di una voce sontuosa ed elegantemente amministrata, attenta alla scansione di ogni accento, il soprano consegna una Leonora progressivamente lontana dalla pura astrazione psicologica, lontana dalla concezione del personaggio di derivazione primo ottocento, ma donna drammaticamente presente al suo destino contro cui lotta e contro cui al fine soccombe.
Il Conte di Luna è un personaggio di una spiritualità relegata tra la vanitosa coscienza del suo potere onnipotente Nemmeno un Dio può, Donna, rapirti a me, e l’amore sensuale, oggetto di baratto, pregno di gelosia e vendetta. E’ un personaggio vuoto, privo di memoria e di sentimenti, esemplificazione compiuta della fatuità di una nobiltà poco amata e molto temuta, tracotante e libidinosa. Personaggio senza storia e senza fascino, alla ricerca solo della pace nella tempesta dei sensi ardenti, che riesce tuttavia a sciogliere una elegia magnifica di Leonora nella celebre aria Il balen del suo sorriso. Roberto Frontali ha dato vita a un personaggio così negativo, con voce calda, tenebrosa nei registri gravi, non priva di raffinatezze stilistiche nell’aria più impegnativa. Meritevole di citazione il modo di porgere la frase Sperda il sole d’un suo sguardo la tempesta del mio cor. C’è un distacco espressivo tra la fonazione di tempesta e la fonazione de il mio cor. E’ un barlume di sensibilità dato da Frontali al Conte, cogliendo la oggettività della tempesta, evento esterno, devastante e incontrollabile, e la soggettività del mio, entità interiore e controllabile. Non sarebbe velleitario intravedere in tale distinzione la volontà dell’interprete di sovvertire le priorità della sua esistenza: la difesa dell’io e della sua nobiltà, dalla resa all’amore per una giovin donna di origini ignote che ostinatamente e orgogliosamente lo respinge. Una interpretazione quella di Frontali salutare, che potrebbe essere pronuba di innovazioni nella personificazione rigorosamente negativa del Conte di Luna.
Manrico è un fanciullo, della età di circa tre lustri, che di quella età gioiosa ha tutti i trasalimenti, la generosità, la purezza, lo slancio amoroso ma anche l’incapacità di capire il mondo e se stesso. Dal racconto della zingara percepisce ben poco, come testimoniano la ingenua domanda Non son tuo figlio? E chi son io, chi dunque? e l’ingenuità con cui crede alla equivoca risposta: tenera madre non mi avesti ognora? Nella incolpevole ingenuità non va alla ricerca del suo tragico passato che alimenterà la furia del Conte e che lo condurrà a morte. Manrico è un personaggio sul crinale di una fanciullezza che va tramutandosi nella maturità dell’uomo, portatore di una dualità che si riverbera nella dualità del canto. L’intera sua partitura è strutturata con aree tipiche del tenore di grazia, dense del lirismo melodico che caratterizza la canzone d'ingresso, Deserto sulla terra e la dichiarazione d’amore a Leonora Ah si ben mio, e aree accese di guizzi eroici, di accenti epici tipiche del tenore di forza e drammatico come nel Miserere, o come Ah quell’infame amor perduto, o ancora nei passi fioriti della cabaletta Di quella pira. Marcello Giordani ha colto la dualità vocale del personaggio e ha costruito un Manrico assai credibile in bilico tra la casta ingenuità del fanciullo e l’incipiente maturità dell’eroe guerriero che si confronta con realtà e situazioni grevi. Anche in assenza di raffinatezze stilistiche, grazie ad alcuni squilli in acuto uniti a un fraseggio elegante, la sua prestazione ha lasciato comunque i segni di una esperienza scenica ormai collaudata.
Poco convincente la direzione d’orchestra di Renato Palumbo. Talvolta assolutamente sgradevole come in alcuni passaggi dei fiati, striduli come di strumenti stonati e nei passaggi degli strumenti a percussione come nel coro degli zingari. I tempi sono apparsi assai sostenuti, pur nei momenti più elegiaci e religiosamente solenni. Al contrario nei momenti più vibranti come la cabaletta della pira, l’orchestra è apparsa afona e comunque di solo sottofondo. La esecuzione perfetta di tanta messe di musica che invade il Trovatore, si è rivelata per il M° Palumbo una scalata tanto accidentata da divenire impossibile. Non ha invece demeritato il coro diretto da Andrea Faidutti che ha saputo infondere l’ispirazione e l’espressività giuste a tutti i passaggi corali, quegli degli zingari, quelli degli armigeri, o il coro delle vergini in convento.
Ultima annotazione alla regia del norvegese Paul Curran. Una regia che non ha dato alcun contributo agli interpreti nella costruzione dei personaggi, né alla scenografia nella ricostruzione di spazi e ambienti coerenti con l’azione scenica. Una distribuzione delle luci spesso avulse dagli avvenimenti e piuttosto fastidiose, la presenza di un incomprensibile e pericoloso scalone mobile, hanno reso il lavoro dei cantanti più impegnativo distraendoli dalla dovuta concentrazione. Distonie evidenti e dissacranti hanno poi concluso l’opera con l’esecuzione di Manrico con un colpo d’arma da fuoco alla nuca piuttosto che con una decapitazione sul ceppo, come da libretto. Omissione non irrilevante quando si pensi all’intenzionale parallelismo dei ceppi martirio della madre di Azucena e il ceppo cui è condannato Manrico.

Uno spettacolo assai complesso e discontinuo, dal quale tuttavia si coglie l’impegno della sovraintendenza di Antonio Cognata e della direzione artistica di Lorenzo Mariani a elevare il Teatro Massimo alla altezza dei maggiori e più ambiti teatri d’opera italiani, pur avendo riguardo alle esigenze di bilancio.





lunedì 10 ottobre 2011

SANTIAGO DE COMPOSTELA -AUDITORIO DE GALICIA

Si rinnova il miracolo del Barbiere di Siviglia

Il Barbiere di Siviglia di Rossini è il miracolo di un genio che sa trattare temi di impegno e analisi sociale con una musica densa di melodie giocose e vivaci, cui un insolito senso del ritmo e un magistrale impiego dei fiati trasmettono una allegrezza, una gioia esuberante di vivere nella pienezza dei sentimenti più infantilmente burloni: lo scherzo, il travestimento, il mutar di voci, la serenata d’amore, il far danaro prestandosi all’inganno ruffiano. Eppure in tale sontuoso monumento musicale si intravedono spunti amari di un mondo disfatto che perduto i riferimenti di un potere assoluto e indiscusso è in cerca di nuovi ordini sociali.

Una nobiltà caduta e un’altra ansiosa di ascendere, una chiesa rappresentata nella sua forma più immorale e risibile, una gendarmeria corrotta che del suo potere abusa per gli interessi amorosi di un rappresentante dell’alta borghesia, sono gli interpreti di quel mondo in disfacimento che tra isterismi e frastuoni tenta una restaurazione di valori. Sopra tale mondo si eleva, nella freschezza della sua giovinezza e nell’ansia del suo amore, un personaggio a suo modo docile, obbediente, casto ma all’occasione forte e vendicativo. E’ Rosina, innamorata di un certo giovine di cui ignora la nobiltà, e a sua volta attesa quale sposa da un signorotto in disgrazia che pone in atto ogni raggiro pur di sposarla e goderne l’eredità.

Rosina fanciulla priva di privilegi di nobiltà ereditata e per questo tenuta quasi in ostaggio, è il simbolo di una società che lontana dagli ardimenti sanguinosi delle rivoluzioni, cerca di sottrarsi alla vigilanza oppressiva e interessata del suo tutore e di realizzare il sogno d’amore con sotterfugi e piccole menzogne, ma senza violenza e senza spargimenti di sangue. Capace di decidere, resistere e vincere, essa è la rappresentazione della sapienza innata della donna, del potere fondamentale, primordiale e attrattivo di cui la natura l’ha dotata nella sua istintiva sensualità e dunque il punto di fuga di tutta l’opera, cui convergono tutte le trame, le inutili precauzioni, le finzioni e le proibizioni. Rosina è un saggio complesso ed esuberante di esplorazione ed evoluzione psicologica, monumento assoluto nella letteratura operistica.

La interpretazione di una ragazza docile e remissiva, scaltra e innamorata, capace di affrontare situazioni buffe e paradossali, ma anche soavi momenti di tenerezza e dolcezza, richiede una personalità di interprete che sappia scolpire il tutto tondo del personaggio con una dovizia di voce, una espressività, un dominio del palcoscenico, assolutamente superlativi.

Il miracolo di una Rosina incantevole l’ha compiuto Alessandra Volpe. Dotata di una voce di mezzosoprano profonda e pastosa, emessa e controllata alla perfezione, ha regalato una cascata di colorature, di variazioni fantasiose, impeccabili e avvolgenti. La cavatina Una voce poco fa, e la lezione di canto Contro un cor che accende amore sono state luminescenze eteree, autentiche lezioni di bel canto, nelle quali la vellutata cavernosità del registro grave mai forzato e raggiunto con intrepida facilità, si univa allo sfavillio di acuti fulminanti, in un fluire ininterrotto di trilli e squilli di rara bellezza, fonte inesauribile di intense emozioni. La cantante ha dato lezione non solo di canto, ma anche di interpretazione. E’ stata solitaria e grande. Grande nell’amore come nel cinismo, nella tenerezza come nella falsa modestia, nell’astuzia come nella docilità. Educata a trattare così bene il suo respiro riesce a effondere in una musicalità meravigliosa una autentica anima di donna. Rosina assume in lei una verità tangibile, che sottraendola alla astrazione estetica della immaginazione la consegna a una umanità viva e vera, ricca delle sue infinite policromie. Il suo ma nello splendido autoritratto della cavatina, raggiunge i vertici di un bastione, linea di demarcazione tra la ossessiva vigilanza del tutore e la difesa dei propri inviolabili diritti di fanciulla innamorata, principio di una Restaurazione etica prima che politica. In modo analogo il duetto con Figaro Dunque io son è reso denso di virtuosismi vocali che pur nella finzione della ingenuità e della modestia esprimono mirabilmente la allegrezza amorosa della fanciulla ormai certa della sua conquista dell’amore e della sua vittoria sulla stoltezza di vecchi parrucconi. Una interpretazione superba dunque, di grandissima classe, cui la bellezza fisica e la enorme perizia tecnica pongono la signora Volpe di diritto accanto alle grandissime interpreti di Rosina.

Accanto a lei, occorre di necessità citare la direzione d’orchestra di Antoni Ros Marbà. Con somma maestria ha acceso la partitura di mille colori cangianti già avvertibili nella luminosa bellezza della sinfonia e culminanti nella splendido accompagnamento con chitarra della serenata di Lindoro. La sua orchestrazione è impreziosita di sfumature morbide nei momenti di dolci sussurri e ardimenti orchestrali soprattutto nel canto corale là dove l’intreccio pare inestricabile e opprimente come nel sestetto finale del I Atto. In tale pezzo corale l’arte sublime di Rossini in materia di polifonia e contrappunto, è resa magnificamente in tutta la sua invasiva fascinazione nella perfetta integrazione delle sei voci con la dovizia di suoni e colori dell’orchestra. Certamente il punto più alto e più avvolgente di tutta l’orchestrazione. Sotto la sua direzione tutta l’orchestra ha dispiegato un afflato intenso con i cantanti, riuscendo a svolgere volta a volta il ruolo descrittivo dei sentimenti e delle situazioni come nella turbolenza del temporale, a volte divenendo parte integrante del canto e della scena.

Notevole e ben agguerrito anche Paolo Borgogna nel ruolo di Don Bartolo. Ne è scaturito un personaggio equilibrato tra la scemenza di un vecchio diffidente e ridicolo, dall’umore pomposo e pedante, e un vecchio consapevole delle proprie sconfitte e risoluto a non cedere. La fonte di tanta risolutezza è la sua dottrina, annunciata con solennità nell’aria A un dottor della mia sorte, la quale da un lato giustifica l’autodefinizione di dottore saggio e convinto, dall’altro dà ragione alla sua capacità di saper essere paterno Son disposto a perdonar e protettore So ben io quel che ho da far. A tali modulazioni del personaggio Borgogna ha saputo conferire tutta la ricchezza del suo repertorio di cantante e di interprete. Il passo svelto, la costante mobilità delle braccia, le diverse smorfie facciali, le diverse fonazioni delle frasi musicali hanno trasformato un personaggio buffo e cialtrone, in una figura più umana di fronte all’ostinato silenzio della ragazza, capace di sentimenti meno primitivi e più elevati.

Assai meno esemplare il Don Basilio di Simòn Orfila, il quale seppur dotato di una voce corposa e penetrante, ha cantato l’aria della Calunnia con la scioltezza di un saggio di canto, non inserito in un contesto corale di personaggi e situazioni, né consapevole del ruolo perverso, meschino e imbroglione che la musica gli affida. La ricchissima descrizione dei meccanismi con cui una calunnia diviene strumento distruttivo di personalità, una descrizione supportata dalle frasi insidiose e progressive dell’orchestra, il suo sibilando che dovrebbe riprendere il sibilo velenoso del serpente espressione primigenia del peccato, pérdono di pregnanza e si arrendono a una interpretazione statica nelle modulazioni della voce e nella fissità delle movenze corporee.

Di ben altro spessore la Berta di Leticia Rodriguez. Personaggio assai marginale nell’evolversi degli eventi ha saputo dare peso e spessore al suo ruolo grazie a una presenza in scena quasi costante, grazie alla immaginazione registica di essere essa stessa confidente di Rosina e amante di Fiorello. La sua mobilità, il percorrere il palcoscenico quasi senza posa, le hanno permesso di svolgere il ruolo assai verosimile di donna tutta affari, confidente, amante, intermediaria delle relazioni amorose tra Rosina e il Conte. Con tale invenzione registica riesce agevole spiegare la sua presenza nel sestetto che chiude il primo atto. Sestetto nel quale la sua voce potente e ben usata non ha solo dato maggior equilibrio alla distribuzione delle voci, ma anche il senso di coinvolgimento attivo nel confuso intreccio di falsi militari, false fedeltà e giovanili ardori amorosi. Intreccio preludio di pazzie e rappresentazione inoppugnabile di un disordine di ruoli e di identità perdute, nel quale ogni armonia diventa barbara e ogni cervello perde lucidità, non ragiona, si confonde, si riduce a impazzar.

Onesto lavoro per il Conte di Juan Antonio Sanabria, di cui colpisce la umiltà scenica piuttosto che non il fascino della emissione, la bellezza del timbro. Umiltà che tuttavia gli consente di evitare spericolati virtuosismi e che forse ha motivato la soppressione dell’insidiosissimo rondò Cessa di più resistere.

Poco da dire sulla interpretazione del Figaro di Damiano Salerno, poco in forma come onestamente annunciato.

Una riflessione infine sulla regia di Curro Carreres. Una regia la quale privilegiando il canto e la musica alla ambientazione, ha saputo descrivere i diversi momenti con un sapiente gioco di luci su di un palcoscenico accidentato da dossi assai evidenti. Così con mezzi e risorse limitate Carreres è riuscito a descrivere l’accidentato percorso di tutti i personaggi costretti a muoversi non per traiettorie lineari e prevedibili, le traiettorie della onestà e della trasparenza, ma per dossi da evitare come trappole di inganno. Il gioco di luci, le luminosità estese calde del calore dei gialli, o le atmosfere dominate da luci bianche e livide hanno accompagnato le situazioni nell’alternarsi della loro chiarezza e gaiezza o del loro imbroglio torvo di inutili precauzioni. Su tale palcoscenico immersi in tali giochi di luce, tutti i personaggi si sono mossi con sapienza, accortezza e verità.

Alla fine uno spettacolo gioioso, che ha strappato oltre che il sorriso riposante applausi convinti che all’apparire di Alessandra Volpe sono diventati scroscianti. Una ovazione meritata e correttamente tributata alla maggiore interprete.