martedì 20 dicembre 2011

LEIPZIGER OPERNHAUS

MACBETH

di Giuseppe Verdi

Con la magia di un canto di scultorea bellezza nella più cupa e sgomenta opera di Verdi e grazie a una vibrante interpretazione, Amarilli Nizza si rivela la più ispirata, completa e affascinante Lady di questi anni.

La immensa grandezza del Macbeth di Shakespeare risiede nel meraviglioso racconto di temi come la solitudine, la paura, l’angoscia, l’allucinazione, l’ambizione, che si intrecciano e si riflettono in un complesso gioco di psicologie contrapposte. Temi che trovano una sintesi sovrana nel tema del Male. Il Male che esemplificato nella sfrenata, libidinosa ambizione di potere, è descritto nel suo cammino distruttivo, analizzato nella sua natura e negli strumenti con cui inonda di iniquità l’intera vicenda umana. Il Male che assume forme tangibili e comunica paurosamente le potenzialità negative dell’animo, illumina le forze tenebrose che scatenandosi possono dischiudere l’angosciosa prigione di dubbi, di paure, di allucinazioni nella quale ciascuno può annientarsi.
Ma pur se esplorato nella sua cosmica dimensione, il Male rimane tema non fine a se stesso. La sua analisi e rappresentazione diventano analisi e rappresentazione della Storia colta nella sua tragica sussistenza: continuo conflitto di opposti nello scontro delittuoso cui l’uomo e le sue idealità sono perennemente condannati. La conflittualità e la contrapposizione violenta sono difatti i pilastri di tutta l’opera. Come il Male è contrapposto al Bene, così il Cielo è contrapposto all’Inferno, il naturale al sovrannaturale, il giorno alla notte, l’azione alla inazione, la realtà alla allucinazione, gli uccelli della notte a quelli del giorno.
In una foresta di malvagità così folta è lecito chiedersi quali siano le forze da cui tante malvagità traggono origine e ispirazione: sono le forze aberranti e distruttive interne all’uomo, che lastricano di furore e di sangue, di rivoluzioni e di guerre il cammino della Storia, o sono Potenze infernali esterne e invisibili che lo attraggono con falsi ed equivoci vaticini e lo conducono alla perdizione perpetua? E’ il Macbeth un dramma di speranza o disperato?

La risposta proposta dall’allestimento di Lipsia è il ricondurre il Male del mondo al disegno malefico di forze esterne allo spirito umano. Forze occulte che con malvagia irrisione trasformano la Storia in un funesto gioco di annientamenti progressivi. Forze indecifrabili, ambigue, bolle eteree, come le Streghe asessuate cui Banquo si rivolge insicuro “dirvi donne vorrei, ma lo mi vieta quella sordida barba”. Forze nel dominio delle quali entrano via via le menti in un groviglio di condizioni, che sottraendo a ciascun personaggio la sua propria percezione dell’essere e svuotandolo della propria identità, lo trasforma in una sorte di burattino esecutore incosciente di azioni e misfatti da lui stesso incompresi. Così la realtà si fa pura immaginazione e ogni azione è resa farsa di un racconto di un povero idiota, vento e suono che nulla dinota!
Uno spettacolo messo in scena già nel ’99 e che nella rottura di assetti registici tradizionali, intende rendere testimonianza alla tumultuosità degli avvenimenti successivi alla caduta del Muro di Berlino. Evento che germogliato a Lipsia con il cumulo di macerie ideologiche e di simboli, con la fine di una menzogna, il rovesciamento di valori, la crisi di ogni rappresentazione che ambisse a descrivere la mente con la sola forma, aveva completamente rigenerato la spiritualità e la genialità creativa di ogni artista. Così il Macbeth di Peter Konwitschny diventa un teatro dei burattini, nel quale le baldorie irridenti delle Streghe si trasformano in un’orgia di assassinii simulati, morti apparenti, resurrezioni improvvise, banchetti di sesso, e si concludono con l’esultanza corale come di liberazione da un incubo trascorso. Straordinario e coinvolgente è infatti il sublime coro Patria oppressa cantato non come aspirazione ma come obiettivo raggiunto, commovente ricordo della patria non dolce madre conversa in un avel, ma madre che al venir del nuovo Sole accoglie nel suo grembo sposi e prole in un canto di vittoria che illumina i cuori e le menti, così come le luci di sala che progressivamente si accendono sugli spettatori.

Uno spettacolo che seppur datato di 12 anni, riesce a trasmettere tutto il fascino geniale ed eloquente con cui fu concepito. Merito delle maestranze ma soprattutto dei due interpreti principali Amarilli Nizza (Lady Macbeth) e Marco di Felice (Macbeth) che hanno saputo cogliere l’originalità della intuizione del regista e ad essa uniformarsi nella voce e nella azione scenica. Soprattutto Amarilli Nizza la quale ha profuso la sua voce con purezze e misura di accenti nelle fasi di lirismo, è stata vertiginosa nelle cabalette pur sempre attenta e rigorosa nella adesione del canto alla parola e della parola al momento psicologico. Il suo Che tardi? esprime tutta l’impazienza dell’ascesa al trono, mentre la “a” lunga e aperta di Ascendi a regnar trasmette lo stupore di fronte alla titubanza imbelle dello sposo a compiere una azione che ha come premio nulla meno che il regnare. Inquietanti la mimica e la dizione della frase Duncan sarà qui?...qui? qui la notte? con cui Lady Macbeth rispolvera la mente e prova la maturazione del disegno di uccidere il re Duncan. Tremenda la successiva invocazione Or tutti sorgete ministri infernali, la cui complicità potrà incorare il suo sposo a impugnare il pugnale senza tremori. Magica, di una magia contagiosa ed elettrizzante, nel duetto successivo alla uccisione del Re. All’orrore di Macbeth nel guardarsi le mani insanguinate e al suo tormento per non aver pregato con le guardie, risponde ripetendo tre volte Follie! Tre frustate al burattino fanciul vanitoso che nel ricordo dell’assassinio ha perso il sonno, teme ogni rumore, trema di fronte a ogni ulteriore azione criminosa. Altra e alta poesia interpretativa è la meditazione La luce langue,…. meditazione solitaria e solenne che le note lunghe dilatano nello spazio cosmico e che atterra nella constatazione della necessità di nuovi delitti. Con una ricchezza di movimenti corporei e smorfie facciali, esaltati dall’inseguimento della corona che le rotola lontano, esprime la voluttà del possesso del soglio e dello scettro. Il canto e le fonazioni quasi sillabate, sono i sintomi della decomposizione della mente non ancora compiuta ma prossima al culmine della follia autodistruttiva. Prima di tale momento tuttavia la regia concepisce la scena del banchetto sul catafalco di Banquo. Se le allucinazioni di Macbeth possono rendere visibile il fantasma di Banquo, il suo catafalco può essere reso credibilmente il gran tavolo del banchetto imbandito per l’ascesa al trono di Macbeth grazie all’assassinio del Re Duncan. Nella ripresa del brindisi per dar senso al canto Folleggi e regni qui solo amor su di esso Konwitschny scatena con una danza con pochi veli la sensualità blasfema della Lady. In tale danza ispirata forse all’espressionismo di Otto Dix nella dovizia e nei colori dell’abbigliamento, caricata di espliciti riferimenti erotici, Amarilli Nizza raggiunge uno dei momenti più esaltanti dell’opera in cui canto e recitazione si fondono in un connubio eloquente del medesimo gaudio orgiastico del potere e del sesso. Gaudio da cui l’angoscia delle apparizioni di Banquo definitivamente emargina Macbeth, irretito nella sua impotenza e nel bisogno di interrogare ancora le streghe sul suo futuro. La follia di Lady Macbeth progredisce ancora e si scatena negli insulti Vergogna, signor, Spirto imbelle! mirabilmente scagliati dalla Nizza quasi parlando, in una esplosiva miscela di apparente coraggio e autentico terrore. Un terrore che sembra dissiparsi nel racconto delle streghe che assicurano Macbeth Te non ucciderà nato da donna e ancora più rassicurante Invitto sarai finché la selva di Birna contro te non mova. Un racconto che la Lady attende con impazienza e quasi impone con l’incalzare del Segui pronunciato tre volte con un crescendo di imperio quasi ascesa alla certezza che l’impresa iniziata col sangue, nel sangue si compirà e lei sarà regina per sempre. Ma è una rassicurazione che si trasforma immediatamente nel delirio di altri stermini, dopo la confessione di Macbeth che l’apparizione di Banquo gli ha pronosticato che la sua stirpe regnerà. L’orgia di assassini e di sangue raggiunge il parossismo e sottrae alla Lady la lucidità dell’essere. Svuotata del tutto, con gli occhi spalancati ma non vedenti, appare tetra in volto, una testa dondolante come bambola abbandonata dal burattinaio, un incedere verso una destinazione indefinita e una pallida candela in mano a illuminare un cammino di distruzione. Nella solitudine della notte, in un soliloquio che pare voglia misurare l‘abisso dell’ignoto e purificarla dalle infamie sanguinose, ripensa con stupore Chi poteva …tanto sangue immaginar, e cerca una qualche forma di impossibile consolazione. Nella alienante follia trova ristoro nella banale constatazione che dalla fossa chi morì non surse ancora. Frase ripetuta due volte e la seconda volta con accentuata irrisione, quasi a deridere delle sue paure e della fatuità del credere nella capacità di agire di chi giace ormai nella fossa. Così consolata, recita ma non canta Andiam Macbetto, chiudendo la sua parabola esistenziale con la stessa recitazione con cui aveva esordito nella lettura della lettera Nel dì della vittoria,….

Così con la magia di un canto di scultorea bellezza nella più cupa e sgomenta scena di un'opera ancor più cupa, Amarilli Nizza conclude la sua interpretazione di Macbeth provando d'essere la più ispirata, completa e affascinante Lady di questi anni.

sabato 29 ottobre 2011

TEATRO MASSIMO di PALERMO

IL TROVATORE

di Giuseppe Verdi
La tremenda eco di un amore filiale e di un amore materno annientati nel rogo

Il Trovatore è dramma truce, denso di orride reminiscenze, di passioni forti e brucianti, di false morti e improbabili riapparizioni, tetro di ombre scure, illuminato solo da bagliori di fiamme distruttive. Un dramma inverosimile, un groviglio di episodi difficili da sciogliere nella loro vertiginosa complessità, su cui tuttavia si elevano la straordinaria ricchezza melodica, la fiumana di musica, la immensa statura di Verdi che scrivendo musica se ne liberava. E per liberarsene ogni intreccio era bastevole. La vendetta, l’amore, le battaglie, le vocazioni monastiche, le carceri, i roghi, gli avvelenamenti, gli equivoci banali e improbabili, di cui il Trovatore trabocca, sono solo pretesti per generare melodie. Senza connessioni, senza una sequenza che dia continuità al racconto e vigore ai personaggi, ambientato in una società ancestrale, dominata dalle ossessioni di presenze demoniache e di streghe dai poteri diabolici, una società nella quale la nobiltà conserva intatti poteri e privilegi, Il Trovatore è l’epopea del Verdi che sa rendere ardenti di musica anche ceppi accesi. Eppure nella miscela di temi sconnessi del libretto, è possibile cogliere nel tema dell’amore filiale e materno un tenue filo di coerenza e connessione.
Il Trovatore appare un viaggio negli abissi della maternità, insopprimibile vocazione di ogni donna all’amore verso chi l’ha generata e verso chi ha generato. Vocazione esaltante e dolente splendidamente evocata dalla canzone di Azucena, Stride la vampa. Una canzone mesta, una vibrante descrizione pittorica del delirio assassino di una folla indomita, attraverso la quale discinta e scalza sua madre è spinta al rogo. Circondata da scellerati sgherri la misera vittima riesce solo a gridarle singhiozzando Mi vendica. Un grido che in Azucena lascia un’eco eterna e spettrale, tale da spingerla a rapire il figlio del vecchio Conte per bruciarlo nella stessa fiamma di sua madre. Ma nel delirio dei sentimenti, nella ferale visione del rogo, nel rogo getta il suo proprio figlio. Tragico errore che aggiunge alla angoscia di una vendetta non compiuta, la allucinante colpa di una maternità infanticida. Con Azucena resterà Manrico, altro figlio del vecchio Conte, che lei fedele alla vocazione alla maternità alleverà quale tenera madre! Una vocazione forte seppure contaminata dalla iniqua speranza di poter attraverso lui vendicare la sua propria madre. Mi vendica, è infatti la stessa, tragica implorazione di Azucena a Manrico, in una scena surreale dominata dalla allucinazione dell’amore di figlia che offusca l’amore di madre. A un duetto così pregno di echi di condanne eterne, di desideri empi di vendetta, seguono due scene stupende nella bellezza del canto: la scena della clausura di Leonora che crede alla falsa morte di Manrico in battaglia, e la scena del fallito tentativo del giovane Conte di Luna di rapirla al chiostro. Scene che lasciano il percorso di Azucena nella nebulosità di una evoluzione indefinita. Essa riappare infatti larva umana in prossimità dell’accampamento del Conte. Interrogata da dove venga risponde il tetto di una zingara è il cielo, sua patria il mondo. Sintesi tragica di tutto il dramma della sua esistenza e della sconsolata visione della stessa, sospesa sulla consapevolezza ingenua ma vera della contingenza del mondo. Il suo errare, ora, orfana del figlio cercato invano, è il pellegrinaggio tormentoso di una mamma non più mamma, deserta nel deserto di un destino ingrato. Eppure in quel cumulo di memorie avvilite si leggono la tragica e solitaria grandezza di una madre nel saper aggirare i labirinti dell’esistenza, sola nel dolore ma non arresa alla ineluttabilità del fato. Azucena, è l’emblema del divino mistero della maternità contaminata e frangibile, che forte della sua fede nel Dio de’ miseri e nel Dio vendicatore, non ha e non ha bisogno di competizioni. Al Conte che avendo riconosciuto in lei chi il bambino arse! la condanna al supplizio della pira, risponde con spavalda certezza Dio ti punirà!. E’ l’impotente rivolta di una zingara emarginata contro una società soprafattrice in cui il potere di vita o di morte appartiene non alla legge ma al signorotto ed è tramandato di generazione in generazione. Verdi che aveva colto nelle opere precedenti il tema della schiavitù dei popoli, affrontato con immenso successo il tema della patria e delle libertà perdute, appare nel Trovatore aver dimenticato l’empito eroico e gagliardo che pochi anni prima aveva suscitato in lui la fine dei poteri assoluti. V’è solo un sussulto nel Conte quando condannando Manrico alla scure e Azucena al rogo si domanda: Abuso io forse del poter che pieno in me trasmise il prence? Amaro interrogativo che lascia ancor più emergere la arretratezza storica e culturale del libretto. Eppure tra questi rovi di storia e cultura si elevano memorabili arie e cabalette, che stupendamente descrivono la supremazia della libidine amorosa sull’appagamento, la morte come unica alternativa all’amore, l’inganno meditato e tragico. Temi tutti, retaggio di un romanticismo che nell’anno del Trovatore (1853), dopo le tremende prove di rivoluzioni e guerre d’indipendenza, ha definitivamente perduto il suo fascino attrattivo per dar spazio alla verità vissuta, al documento di vita, a quello che di lì a poco sancirà il trionfo del verismo. Forse consapevole di questo, la scena di Azucena e Manrico assieme in carcere in attesa di esecuzione, è la più verosimile. L’ossessione del rogo, martirio della madre, e ora suo stesso martirio, atterrisce Azucena che invoca Manrico di sottrarla all’orrida sorte della sua stessa ava. Il duetto con lui, nella dolce rimembranza dei monti, della melodia riposante del liuto, crea una atmosfera di estasi sognante che allontana il tempo e il mondo presente annullando le tristi immagini dell’orrida fiamma. Interludio di dolce sopore, ma breve. L’istante della vendetta giunge con la condanna alla scure di Manrico. Trascinata dal Conte ad assistere all’orribile esecuzione, Azucena gli rivela che costui era suo fratello. Un bagliore sinistro di gioia esplode nel grido liberatorio finale Sei vendicata, o madre! Ma è una gioia incompiuta perché la scure cadendo annienta e per sempre il suo amore materno. A tanto e così complesso personaggio Mariana Pentcheva ha cercato di dare sostanza visiva e verità scenica. Aveva a disposizione una voce adatta al personaggio, cavernosa, possente nel registro grave e capace di esplorazioni nel registro acuto. Con tale strumento il suo canto è stato apprezzabile sul piano tecnico, ma assai povero nella costruzione del personaggio. La tormentata vicenda esistenziale di Azucena, le sue allucinazioni, la sua tragica confessione, sono apparse dissolvenze appena avvertite. La Pentcheva ha cantato ma non ha recitato. Così i suoi momenti più alti perdendo tutta la potenza comunicativa hanno spinto lo spettatore in un gelido distacco. E’ quanto accaduto con la canzone Stride la vampa e il successivo Condotta ell’era in ceppi. Due momenti che si fermano sulla soglia di due aree ben cantate, senza però divenire il racconto accorato e coinvolgente di una storia funesta che ha reso la sua esistenza orribile allucinazione del rogo. Se tutta la impalcatura del libretto è fermamente sorretta dalla figura di Azucena, è difficile per gli altri interpreti costruire una personalità autonoma, inserita nel gran rivolo della storia dominante, basata solo sulle melodie della partitura. V’è ampiamente riuscita Amarilli Nizza (Leonora) la quale sin dalla prima romanza Tacea la notte placida inizia la esplorazione costruttiva di sé fanciulla amata nel passaggio Un nome…, cantato con dolcezza e ansietà, e il successivo il nome mio! reso con fierezza e stupore. La pronuncia della frase finale Al core, al guardo estatico, la terra un ciel sembrò, delinea magistralmente il languore gioioso, il turbamento virginale di una fanciulla al canto d’amore di uno sconosciuto guerrier incontrato a un torneo e mai più rivisto. Innamorata di Manrico in modo già convinto e inebriante profeticamente conclude S’io non vivrò per esso/ per esso io morirò. Straordinaria la fonazione dell’io ripetuto due volte, mesto e rassegnato il primo, quasi gioioso il secondo. Una profezia della quale la fanciulla coglie la intensità, quando apprendendo che il suo amore per Manrico è per lui una condanna a morte, invoca su di sé il furore del Conte Vibra il ferro in questo core/Che te amar non vuol nè può. L’angelica purezza, il candore immacolato con cui è cantato il suo turbamento amoroso, sono il primo tratteggio di un personaggio incarnazione dell’ideale, lucida esemplificazione della straordinaria potenza dell’amore quale condizione della esistenza stessa. Al falso annuncio della morte di Manrico, Leonora infatti non trova in terra per sè un riso, un fiore , una speranza!. L’unico rifugio è la clausura, luogo di penitenza e di attesa di un ricongiungimento in cielo con il perduto bene. Il perduto è cantato con una voce appena emessa, dolente e rassegnata testimonianza della inconsistenza della vita senza amore. Ma la mestizia si trasforma in giubilo, in sovrumano incanto all’apparire inatteso di Manrico. Un incanto avvertito con incredulità e sospensione nella bellissima chiusa Sei tu dal ciel disceso o in ciel son io con te! in cui la gioiosa elevazione della voce verso gli acuti è la consolante ascesa verso beatitudine del Bene ritrovato. Il personaggio di Leonora è ormai compiutamente delineato nella sua siderale distanza da Azucena. Azucena è madre ferocemente colpita in cerca di vendetta, Leonora è una fanciulla innamorata che teme per il suo amore e senza esitazioni si prodiga per preservarlo.

Nel canto della Nizza il forse della frase Salvarlo io potrò, forse, è quasi recitato; recitato con una intensità espressiva eccelsa che illumina il dubbio che l’attraversa. E’ il momento in cui tutto il giubilo dell’amore si trasforma in sospir dolente e lo spirito coglie nella prigionia di Manrico le inesorabili tetre luci di cui aveva già avvertito l’opprimente presenza. A lui si rivolge Leonora con un canto che la Nizza eleva alla poesia della pittura impressionistica con l’ondeggiare della voce sulle “i” della frase Aura che intorno spiri/---arreca i miei sospiri. Dal contrasto tra l’intensità di un amore generatore di una gioia che agli angeli sol è provar concesso, e le rivalità fratricide che ne impediscono il godimento, scaturiscono la sublime corale preghiera del Miserere per l’alma di Manrico e l’enunciazione eroica: O col prezzo di mia vita /la tua vita io salverò/ O con te per sempre unita/Nella tomba io scenderò. Il canto della Nizza celebra meravigliosamente la metamorfosi della fanciulla teneramente innamorata in una donna determinata a non subire le vicissitudini della sorte ma esserne artefice, libera e consapevole. Così espansa nell’ardore amoroso promette di salvare Manrico dalla furente rivalità del Conte, umiliandosi davanti a lui con la mirabile implorazione Mira di acerbe lagrime...Calpesta il mio cadavere /Ma salva il Trovator, e offrendo se stessa quale prezzo della grazia. Trattasi di un inganno meditato e messo in atto con giubilo, perché potrà dire a Manrico dì essere salvo per lei, mentre il Conte l’avrà semplice spoglia, fredda ed esamine . La doppia natura del suo gesto, che darà la grazia a Manrico e un cadavere al Conte, è resa con la smorfia perfida con cui pronuncia fredda ed esamine e l’esultanza a braccia elevate con cui si prefigura l’annuncio a Manrico, Salvo tu sei per me. La Leonora di Amarilli Nizza è un modello di soprano dalla vocalità estesissima in acuto e nei gravi, capace di unire canto strumentale ed espressività tragica, dotata di squisita ampiezza di fraseggio, agile nei passaggi di grazia come in quelli di forza. Il suo belcanto è una madia ricca di grandi arie melodiche, di cabalette dense di ostiche fiorettature, di inebrianti passaggi aerei come Sei tu dal ciel disceso, di solitarie ascensioni compiute con soave levità come nel D’amor sull’ali rosee o nel dolente bilancio finale della sua esistenza Prima che d’altri vivere... Accesa dal “sacro fuoco verdiano” forte di una voce sontuosa ed elegantemente amministrata, attenta alla scansione di ogni accento, il soprano consegna una Leonora progressivamente lontana dalla pura astrazione psicologica, lontana dalla concezione del personaggio di derivazione primo ottocento, ma donna drammaticamente presente al suo destino contro cui lotta e contro cui al fine soccombe.
Il Conte di Luna è un personaggio di una spiritualità relegata tra la vanitosa coscienza del suo potere onnipotente Nemmeno un Dio può, Donna, rapirti a me, e l’amore sensuale, oggetto di baratto, pregno di gelosia e vendetta. E’ un personaggio vuoto, privo di memoria e di sentimenti, esemplificazione compiuta della fatuità di una nobiltà poco amata e molto temuta, tracotante e libidinosa. Personaggio senza storia e senza fascino, alla ricerca solo della pace nella tempesta dei sensi ardenti, che riesce tuttavia a sciogliere una elegia magnifica di Leonora nella celebre aria Il balen del suo sorriso. Roberto Frontali ha dato vita a un personaggio così negativo, con voce calda, tenebrosa nei registri gravi, non priva di raffinatezze stilistiche nell’aria più impegnativa. Meritevole di citazione il modo di porgere la frase Sperda il sole d’un suo sguardo la tempesta del mio cor. C’è un distacco espressivo tra la fonazione di tempesta e la fonazione de il mio cor. E’ un barlume di sensibilità dato da Frontali al Conte, cogliendo la oggettività della tempesta, evento esterno, devastante e incontrollabile, e la soggettività del mio, entità interiore e controllabile. Non sarebbe velleitario intravedere in tale distinzione la volontà dell’interprete di sovvertire le priorità della sua esistenza: la difesa dell’io e della sua nobiltà, dalla resa all’amore per una giovin donna di origini ignote che ostinatamente e orgogliosamente lo respinge. Una interpretazione quella di Frontali salutare, che potrebbe essere pronuba di innovazioni nella personificazione rigorosamente negativa del Conte di Luna.
Manrico è un fanciullo, della età di circa tre lustri, che di quella età gioiosa ha tutti i trasalimenti, la generosità, la purezza, lo slancio amoroso ma anche l’incapacità di capire il mondo e se stesso. Dal racconto della zingara percepisce ben poco, come testimoniano la ingenua domanda Non son tuo figlio? E chi son io, chi dunque? e l’ingenuità con cui crede alla equivoca risposta: tenera madre non mi avesti ognora? Nella incolpevole ingenuità non va alla ricerca del suo tragico passato che alimenterà la furia del Conte e che lo condurrà a morte. Manrico è un personaggio sul crinale di una fanciullezza che va tramutandosi nella maturità dell’uomo, portatore di una dualità che si riverbera nella dualità del canto. L’intera sua partitura è strutturata con aree tipiche del tenore di grazia, dense del lirismo melodico che caratterizza la canzone d'ingresso, Deserto sulla terra e la dichiarazione d’amore a Leonora Ah si ben mio, e aree accese di guizzi eroici, di accenti epici tipiche del tenore di forza e drammatico come nel Miserere, o come Ah quell’infame amor perduto, o ancora nei passi fioriti della cabaletta Di quella pira. Marcello Giordani ha colto la dualità vocale del personaggio e ha costruito un Manrico assai credibile in bilico tra la casta ingenuità del fanciullo e l’incipiente maturità dell’eroe guerriero che si confronta con realtà e situazioni grevi. Anche in assenza di raffinatezze stilistiche, grazie ad alcuni squilli in acuto uniti a un fraseggio elegante, la sua prestazione ha lasciato comunque i segni di una esperienza scenica ormai collaudata.
Poco convincente la direzione d’orchestra di Renato Palumbo. Talvolta assolutamente sgradevole come in alcuni passaggi dei fiati, striduli come di strumenti stonati e nei passaggi degli strumenti a percussione come nel coro degli zingari. I tempi sono apparsi assai sostenuti, pur nei momenti più elegiaci e religiosamente solenni. Al contrario nei momenti più vibranti come la cabaletta della pira, l’orchestra è apparsa afona e comunque di solo sottofondo. La esecuzione perfetta di tanta messe di musica che invade il Trovatore, si è rivelata per il M° Palumbo una scalata tanto accidentata da divenire impossibile. Non ha invece demeritato il coro diretto da Andrea Faidutti che ha saputo infondere l’ispirazione e l’espressività giuste a tutti i passaggi corali, quegli degli zingari, quelli degli armigeri, o il coro delle vergini in convento.
Ultima annotazione alla regia del norvegese Paul Curran. Una regia che non ha dato alcun contributo agli interpreti nella costruzione dei personaggi, né alla scenografia nella ricostruzione di spazi e ambienti coerenti con l’azione scenica. Una distribuzione delle luci spesso avulse dagli avvenimenti e piuttosto fastidiose, la presenza di un incomprensibile e pericoloso scalone mobile, hanno reso il lavoro dei cantanti più impegnativo distraendoli dalla dovuta concentrazione. Distonie evidenti e dissacranti hanno poi concluso l’opera con l’esecuzione di Manrico con un colpo d’arma da fuoco alla nuca piuttosto che con una decapitazione sul ceppo, come da libretto. Omissione non irrilevante quando si pensi all’intenzionale parallelismo dei ceppi martirio della madre di Azucena e il ceppo cui è condannato Manrico.

Uno spettacolo assai complesso e discontinuo, dal quale tuttavia si coglie l’impegno della sovraintendenza di Antonio Cognata e della direzione artistica di Lorenzo Mariani a elevare il Teatro Massimo alla altezza dei maggiori e più ambiti teatri d’opera italiani, pur avendo riguardo alle esigenze di bilancio.





lunedì 10 ottobre 2011

SANTIAGO DE COMPOSTELA -AUDITORIO DE GALICIA

Si rinnova il miracolo del Barbiere di Siviglia

Il Barbiere di Siviglia di Rossini è il miracolo di un genio che sa trattare temi di impegno e analisi sociale con una musica densa di melodie giocose e vivaci, cui un insolito senso del ritmo e un magistrale impiego dei fiati trasmettono una allegrezza, una gioia esuberante di vivere nella pienezza dei sentimenti più infantilmente burloni: lo scherzo, il travestimento, il mutar di voci, la serenata d’amore, il far danaro prestandosi all’inganno ruffiano. Eppure in tale sontuoso monumento musicale si intravedono spunti amari di un mondo disfatto che perduto i riferimenti di un potere assoluto e indiscusso è in cerca di nuovi ordini sociali.

Una nobiltà caduta e un’altra ansiosa di ascendere, una chiesa rappresentata nella sua forma più immorale e risibile, una gendarmeria corrotta che del suo potere abusa per gli interessi amorosi di un rappresentante dell’alta borghesia, sono gli interpreti di quel mondo in disfacimento che tra isterismi e frastuoni tenta una restaurazione di valori. Sopra tale mondo si eleva, nella freschezza della sua giovinezza e nell’ansia del suo amore, un personaggio a suo modo docile, obbediente, casto ma all’occasione forte e vendicativo. E’ Rosina, innamorata di un certo giovine di cui ignora la nobiltà, e a sua volta attesa quale sposa da un signorotto in disgrazia che pone in atto ogni raggiro pur di sposarla e goderne l’eredità.

Rosina fanciulla priva di privilegi di nobiltà ereditata e per questo tenuta quasi in ostaggio, è il simbolo di una società che lontana dagli ardimenti sanguinosi delle rivoluzioni, cerca di sottrarsi alla vigilanza oppressiva e interessata del suo tutore e di realizzare il sogno d’amore con sotterfugi e piccole menzogne, ma senza violenza e senza spargimenti di sangue. Capace di decidere, resistere e vincere, essa è la rappresentazione della sapienza innata della donna, del potere fondamentale, primordiale e attrattivo di cui la natura l’ha dotata nella sua istintiva sensualità e dunque il punto di fuga di tutta l’opera, cui convergono tutte le trame, le inutili precauzioni, le finzioni e le proibizioni. Rosina è un saggio complesso ed esuberante di esplorazione ed evoluzione psicologica, monumento assoluto nella letteratura operistica.

La interpretazione di una ragazza docile e remissiva, scaltra e innamorata, capace di affrontare situazioni buffe e paradossali, ma anche soavi momenti di tenerezza e dolcezza, richiede una personalità di interprete che sappia scolpire il tutto tondo del personaggio con una dovizia di voce, una espressività, un dominio del palcoscenico, assolutamente superlativi.

Il miracolo di una Rosina incantevole l’ha compiuto Alessandra Volpe. Dotata di una voce di mezzosoprano profonda e pastosa, emessa e controllata alla perfezione, ha regalato una cascata di colorature, di variazioni fantasiose, impeccabili e avvolgenti. La cavatina Una voce poco fa, e la lezione di canto Contro un cor che accende amore sono state luminescenze eteree, autentiche lezioni di bel canto, nelle quali la vellutata cavernosità del registro grave mai forzato e raggiunto con intrepida facilità, si univa allo sfavillio di acuti fulminanti, in un fluire ininterrotto di trilli e squilli di rara bellezza, fonte inesauribile di intense emozioni. La cantante ha dato lezione non solo di canto, ma anche di interpretazione. E’ stata solitaria e grande. Grande nell’amore come nel cinismo, nella tenerezza come nella falsa modestia, nell’astuzia come nella docilità. Educata a trattare così bene il suo respiro riesce a effondere in una musicalità meravigliosa una autentica anima di donna. Rosina assume in lei una verità tangibile, che sottraendola alla astrazione estetica della immaginazione la consegna a una umanità viva e vera, ricca delle sue infinite policromie. Il suo ma nello splendido autoritratto della cavatina, raggiunge i vertici di un bastione, linea di demarcazione tra la ossessiva vigilanza del tutore e la difesa dei propri inviolabili diritti di fanciulla innamorata, principio di una Restaurazione etica prima che politica. In modo analogo il duetto con Figaro Dunque io son è reso denso di virtuosismi vocali che pur nella finzione della ingenuità e della modestia esprimono mirabilmente la allegrezza amorosa della fanciulla ormai certa della sua conquista dell’amore e della sua vittoria sulla stoltezza di vecchi parrucconi. Una interpretazione superba dunque, di grandissima classe, cui la bellezza fisica e la enorme perizia tecnica pongono la signora Volpe di diritto accanto alle grandissime interpreti di Rosina.

Accanto a lei, occorre di necessità citare la direzione d’orchestra di Antoni Ros Marbà. Con somma maestria ha acceso la partitura di mille colori cangianti già avvertibili nella luminosa bellezza della sinfonia e culminanti nella splendido accompagnamento con chitarra della serenata di Lindoro. La sua orchestrazione è impreziosita di sfumature morbide nei momenti di dolci sussurri e ardimenti orchestrali soprattutto nel canto corale là dove l’intreccio pare inestricabile e opprimente come nel sestetto finale del I Atto. In tale pezzo corale l’arte sublime di Rossini in materia di polifonia e contrappunto, è resa magnificamente in tutta la sua invasiva fascinazione nella perfetta integrazione delle sei voci con la dovizia di suoni e colori dell’orchestra. Certamente il punto più alto e più avvolgente di tutta l’orchestrazione. Sotto la sua direzione tutta l’orchestra ha dispiegato un afflato intenso con i cantanti, riuscendo a svolgere volta a volta il ruolo descrittivo dei sentimenti e delle situazioni come nella turbolenza del temporale, a volte divenendo parte integrante del canto e della scena.

Notevole e ben agguerrito anche Paolo Borgogna nel ruolo di Don Bartolo. Ne è scaturito un personaggio equilibrato tra la scemenza di un vecchio diffidente e ridicolo, dall’umore pomposo e pedante, e un vecchio consapevole delle proprie sconfitte e risoluto a non cedere. La fonte di tanta risolutezza è la sua dottrina, annunciata con solennità nell’aria A un dottor della mia sorte, la quale da un lato giustifica l’autodefinizione di dottore saggio e convinto, dall’altro dà ragione alla sua capacità di saper essere paterno Son disposto a perdonar e protettore So ben io quel che ho da far. A tali modulazioni del personaggio Borgogna ha saputo conferire tutta la ricchezza del suo repertorio di cantante e di interprete. Il passo svelto, la costante mobilità delle braccia, le diverse smorfie facciali, le diverse fonazioni delle frasi musicali hanno trasformato un personaggio buffo e cialtrone, in una figura più umana di fronte all’ostinato silenzio della ragazza, capace di sentimenti meno primitivi e più elevati.

Assai meno esemplare il Don Basilio di Simòn Orfila, il quale seppur dotato di una voce corposa e penetrante, ha cantato l’aria della Calunnia con la scioltezza di un saggio di canto, non inserito in un contesto corale di personaggi e situazioni, né consapevole del ruolo perverso, meschino e imbroglione che la musica gli affida. La ricchissima descrizione dei meccanismi con cui una calunnia diviene strumento distruttivo di personalità, una descrizione supportata dalle frasi insidiose e progressive dell’orchestra, il suo sibilando che dovrebbe riprendere il sibilo velenoso del serpente espressione primigenia del peccato, pérdono di pregnanza e si arrendono a una interpretazione statica nelle modulazioni della voce e nella fissità delle movenze corporee.

Di ben altro spessore la Berta di Leticia Rodriguez. Personaggio assai marginale nell’evolversi degli eventi ha saputo dare peso e spessore al suo ruolo grazie a una presenza in scena quasi costante, grazie alla immaginazione registica di essere essa stessa confidente di Rosina e amante di Fiorello. La sua mobilità, il percorrere il palcoscenico quasi senza posa, le hanno permesso di svolgere il ruolo assai verosimile di donna tutta affari, confidente, amante, intermediaria delle relazioni amorose tra Rosina e il Conte. Con tale invenzione registica riesce agevole spiegare la sua presenza nel sestetto che chiude il primo atto. Sestetto nel quale la sua voce potente e ben usata non ha solo dato maggior equilibrio alla distribuzione delle voci, ma anche il senso di coinvolgimento attivo nel confuso intreccio di falsi militari, false fedeltà e giovanili ardori amorosi. Intreccio preludio di pazzie e rappresentazione inoppugnabile di un disordine di ruoli e di identità perdute, nel quale ogni armonia diventa barbara e ogni cervello perde lucidità, non ragiona, si confonde, si riduce a impazzar.

Onesto lavoro per il Conte di Juan Antonio Sanabria, di cui colpisce la umiltà scenica piuttosto che non il fascino della emissione, la bellezza del timbro. Umiltà che tuttavia gli consente di evitare spericolati virtuosismi e che forse ha motivato la soppressione dell’insidiosissimo rondò Cessa di più resistere.

Poco da dire sulla interpretazione del Figaro di Damiano Salerno, poco in forma come onestamente annunciato.

Una riflessione infine sulla regia di Curro Carreres. Una regia la quale privilegiando il canto e la musica alla ambientazione, ha saputo descrivere i diversi momenti con un sapiente gioco di luci su di un palcoscenico accidentato da dossi assai evidenti. Così con mezzi e risorse limitate Carreres è riuscito a descrivere l’accidentato percorso di tutti i personaggi costretti a muoversi non per traiettorie lineari e prevedibili, le traiettorie della onestà e della trasparenza, ma per dossi da evitare come trappole di inganno. Il gioco di luci, le luminosità estese calde del calore dei gialli, o le atmosfere dominate da luci bianche e livide hanno accompagnato le situazioni nell’alternarsi della loro chiarezza e gaiezza o del loro imbroglio torvo di inutili precauzioni. Su tale palcoscenico immersi in tali giochi di luce, tutti i personaggi si sono mossi con sapienza, accortezza e verità.

Alla fine uno spettacolo gioioso, che ha strappato oltre che il sorriso riposante applausi convinti che all’apparire di Alessandra Volpe sono diventati scroscianti. Una ovazione meritata e correttamente tributata alla maggiore interprete.

venerdì 4 febbraio 2011

VERONA - TEATRO FILARMONICO 2011

MANON LESCAUT
di Giacomo Puccini
L’inebriante fascino distruttivo del peccato

Il Peccato è nella natura dell’uomo e nell’uomo manifesta tutta la sua maligna violenza e tutte le sue forme inique. Da nulla l’uomo è attratto come dal peccato, nel quale trova una sorta di follia gioiosa e perversa, ma libera e dichiarata che lo rende vivo e felice nel misterioso abbraccio col piacere. L’erotismo compiaciuto, la voluttà della ricchezza e del potere, l’inganno, il tradimento, la corruzione sono forme con le quali l’uomo peccatore trova arditamente la propria vocazione e realizzazione. La storia di Manon Lescaut è un costante ammiccamento a quell’estremo e ludico cerchio del purgatorio che è la peccaminosa commedia umana. La quale sviluppatasi lungo il fiume limaccioso del peccato raggiunge inesorabilmente l’altra riva che è la Morte.

Peccato e Morte, due tematiche che non avendo né tempo né collocazione geografica, ogni rappresentazione riferita a una età della storia, avrebbe privato della loro eterna attualità. Bene ha fatto il regista inglese Graham Vick a sottrarre tutta la impalcatura registica di Manon Lescaut ai vezzi, ai sospiri, al mondo incipriato del settecento per riportarla alla attualità ardita ma credibilissima della cronaca. Credibile e attuale è infatti la figura del ricco e potente cassiere del re, il vecchio Geronte, che assetato di sesso riesce a sottrarre la giovanissima Manon al suo amante, lo studente Des Grieux. Credibile e attuale l’immonda corruzione del fratello di lei Lescaut, squallida e sordida figura alla ricerca sfrenata e inesausta di facili guadagni; credibile e attuale la dovizia di gioielli, pellicce, ori e alcove dorate di cui Geronte nell’agio del suo smagliante patrimonio ricopre Manon; credibile e attuale il teatrino lascivo cui la costringe alla presenza di religiosi altolocati, in un’orgia di madrigali, di sesso e di droga.
Ma se il Peccato è sostanza vibrante dell’essere, la sua percezione non è immediata. C’è una età, l’età della innocenza, nella quale ogni agire è ispirato dalla gioia festosa e scanzonata del piacere puro e immacolato. Così Graham Vick ambienta la prima scena dell’opera sui banchi di scuola, dove fanciulle e ragazzi si dilettano con aerei di carta, coriandoli, ad animare una scolaresca burlona e orgogliosa della propria giovinezza e della speranza, loro divinità, di cogliere l’ebbrezza delle prime pulsioni, nell’inconscia attesa di inesplorate voluttà. Una età spensierata ma che può trasformarsi nella età della transizione tragica dalla innocenza alla dissolutezza, transizione cui Vick dà evidenza scenica con la fuga di Manon e Des Grieux su un cigno di un lunapark, simbolo al contempo della innocenza e veicolo di trasgressioni. Transizione cui l’arte somma di Amarilli Nizza dà tangibilità e immediatezza con una affascinante ricchezza di accenti e modulazioni della voce. Il suo timido “Manon Lescaut mi chiamo”, cantato con voce tremolante e corpo ravvolto, è il pudore, il candore, l’innocenza intatta di una fanciulla vaga e vezzosa destinata al chiostro, ancora assai lontana dai tentacoli dell’amore trasgressivo. Lieta della sua castità, memore delle gaie e folli risate con le amiche di un tempo, consapevole del tristo destino che l’attende, ignara della sua bellezza, benignamente oppone il suo rifiuto alle profferte di Des Grieux. Ma all’incalzare dolce e suadente dello studente che le fa scoprire la bellezza che racchiude, trova la sintonia inconsciamente attesa nel sospiro infinito delle dolci parole d’amore. La transizione è già avventa. La dolce, innocente, casta fanciulla povera e per povertà destinata al chiostro, vola col suo amante via dal suo passato, via dalla presaga tristezza del suo futuro claustrale, verso un più vago avvenire.
Quando riappare nell’alcova di Geronte che l’ha inseguita e fatta rapire, Manon non è più fanciulla. In una dimora umile, isolata, ma gaia, con Des Grieux ha sperimentato la voluttà ardente e infuocata dell’eros. Ha subito una metamorfosi profonda, che la rende più partecipe, più disponibile, sensualmente più attratta dagli agi, dalla ricchezza, dall’alcova del vecchio libertino, giocoso e gaudente. Una tale trasformazione è resa da Amarilli con una totalità corporea e con una sinuosa sensualità di rara verità. Così tutte le pose davanti a una macchina fotografica, la vezzosità nel farsi tatuare, il saltare sulle ginocchia di Geronte, il claudicare vistoso e sensuale su di una sola scarpa calzata, esprimono in rapidi fotogrammi l’erotismo pregnante di Manon. La quale tuttavia non dimentica della sua umile dimora, e quasi pentita di averla lasciata e di aver abbandonato Des Grieux senza un saluto, senza un bacio, avverte un senso di rigetto per tutti gli splendori di quell’alcova grondante ori ma gelida nella povertà di ardenti baci e infuocati abbracci. La tragica dualità del personaggio conteso tra la voluttà dell’eros vissuto nella pace di un’umile dimora e la voluttà della ricchezza, dell’agio e della eleganza estetica, si esprime nella struggente aria “In quelle trine morbide...”, aria che nella mirabile interpretazione di Amarilli diventa pura elegia sonora. Una elegia così pregna di dolcezza che lascia per incanto dimenticare che con quella riflessione densa di rammarichi e nostalgie Manon prende coscienza del suo maggior peccato: il tradimento di Des Grieux. Il quale da lei tradito è da lei ancora intensamente e voluttuosamente desiderato con una carica erotica non dissimulata ma resa assai esplicita nella chiusa Vieni! Ah Vieni, Vieni, resistere più non so! E ribadita con forza contagiosa nella constatazione che i balli, la musica, i madrigali nella casa di Geronte sono cose belle, ma noiose: Pur …M’annoio! Una dichiarazione di estraneità a quel mondo ricco ma fatuo, che si traduce in una invocazione di perdono a Des Grieux che a dopo averla scoperta riesce a raggiungerla. Il furore vendicativo di Des Grieux offensivo va mitigato e trasformato in una nuova promessa d’amore. Le lusinghe erotiche di Manon si fanno ancor più incalzanti e perentorie. Il voglio il tuo perdono cantato con i pugni che fiondano l’aria, non è una invocazione ma un comando imperioso, che corredato dalla retorica domanda della Manon di un giorno sono forse meno piacente e bella? conferisce alla scena tutta la violenza di un uragano di erotismo accecante cui l’innocente Des Grieux cade vinto senza lottare. Il finale del duetto della resa concluso con la frase di entrambi gli amanti Dolcissimo soffrir è cantato a terra nel groviglio di corpi intrecciati, evidenza inoppugnabile del raggiunto momento supremo dell’amplesso, dolce seppure sofferto. Quando Geronte li scopre così impudicamente avvinghiati, Manon diventa nei suoi confronti una volta ancora melliflua nella forsennata ostinazione della inquietudine erotica. Ma senza successo. Geronte la denuncerà. Des Grieux è presente e coglie la ipocrita doppiezza di Manon, trepida divinamente nell’abbandono ardente ma subito dopo abbacinata di raggi e dagli effluvi della vita adorata!. Una doppiezza che lo trascina giù nella scala dell’infamia, lo rende fango nel fango, vile vergogna. Manon le chiede perdono, un altro perdono con un dolce giuramento. Una frase breve ma cantata con una dolcezza disarmante e tutta femminile che il sospiro dell’arpa accresce nella sua forza ammaliatrice. Des Grieux ormai sfinito appare un fanciullo concupito con la medesima insana concupiscenza con cui Manon beffandosi dell’esilio che forse l’attende concupisce i gioielli, il tesoro, lo smagliante smeraldo di Geronte e tenta di trafugarli, prima dell’arrivo degli arcieri. E’ ormai prossima all’ultimo gradino della perdizione, ma irradia ancora un potere seducente che trascina nell’abisso l’innocente Des Grieux. Il quale ormai succube dell’amore soggiogante di Manon e incapace di sottrarsi al suo abbraccio mortale, cerca di seguirla nell’esilio, lei condannata, lui mozzo per grazia del Comandante.
Bellissima ed eloquente la scena delle condannate alla deportazione che in attesa di essere chiamate penzolano in gabbie ferrate esposte al ludibrio della borghesia popolana. L’umanità, la dignità, l’onore di ciascuna sono come annientati dal peccato commesso. Ogni identità è perduta e tutte quante sono accomunate dalla irrisione insana della folla sguaiata e canzonatoria, sazia di quanto accade in quella gaia assemblea. A tanto ludibrio dà voce il canto oscenamente allusivo alla storia di Manon di un Lampionaio che con uno stornello racconta che per possedere il cuore di una zitella si può promettere il marito ma anche dare gemme e oro. Una scena in cui l’abiezione globale come sudario che avvolge in una identica perversione sia le condannate sia la folla vociante, raggiunge il parossismo. Eppure in tanto degrado c’è ancora la speranza che il peccato di Manon sia rimesso con un altro non meno odioso peccato: la corruzione di un arciere. Ma senza successo, l’abisso di Manon e del suo Des Grieux è ormai scavato e ai due amanti non rimane che imboccarlo fino al fondo. In un sotterraneo illuminato dalle luci tetre che illuminano una discarica, due esseri umani vivono la loro ultima disumana vicenda. Eppure da quella desolazione infinita si eleva un inno alla Vita e all’Amore tra i più belli della storia del melodramma, un inno che Amarilli Nizza e con lei Walter Fraccaro consegnano alla memoria imperitura degli spettatori attoniti di fronte a tanto rapimento estatico.
Dopo un cammino lungo su di una strada polverosa Manon e Des Grieux esausti e assetati cercano ristoro prima della incombente sera. E’ il tramonto del giorno ma Manon avverte anche che è il tramonto della sua esistenza. Stremata dalla fatica, dalla sete e dalla febbre, chiede un istante di riposo e domanda la suo dolce amante di starle vicino. Nella pronuncia di amante lo splendore interpretativo di Amarilli dilata la seconda a di amante, si che l’amore è nel contempo ragione della dolce rimembranza del passato e intenso bisogno nel momento presente. Le risorse fisiche si affievoliscono, il corpo dondola nella spossatezza e trema per il freddo, il respiro è affannoso e rarefatto, ma l’invocazione a Des Grieux O amore aita! Aita! è ancora densa di una sensualità disperata ma intatta, quasi ultima risorsa alla divorante sete. Una sete fisica e una sete di vita, espressa nella stupenda aria Sola, perduta, abbandonata! Autentico capolavoro di musica e letteratura, nella quale la complessa psicologia e tragica vicenda di Manon si colgono nella rabbia Ah, non voglio morir, nello stupore Terra di pace mi sembrava questa.., nel rimpianto Ah mia beltà funesta..tutto il mio passato orribile risorge… nella rassegnazione Ah tutto è finito, Asil di pace ora la tomba invoco, nella disperazione No…, non voglio morir! Eppure nella landa deserta in assenza di alcun refrigerio le tenebre e la notte scendono gelide presaghe di morte. Manon ne prende definitiva coscienza, è a terra ormai stremata, non sente più il mondo esterno, la parola le vien meno ma il lieve respiro lo dedica a invocare baci e carezze, ultime forme di un amplesso estremo, denso dello stesso erotismo già vissuto con Des Grieus Così, …così, mi baci …ancor ti sento…. Così avvinghiata al suo amante, coerente con una vita di colpe e peccati, nella certezza che l’oblio travolgerà tutto tranne il suo amore Manon si abbandona esanime sul corpo di un amante ormai impossibile. Stupendo florilegio di canto e recitazione, nel quale l’immenso talento di attrice e il soggiogante carisma scenico di Amarilli, si accompagnano a una voce duttile, ampia, dai riflessi corposi, dalle rapinose ascese in acuto, capace di invocazioni dolcissime come di invettive furenti, di innocenti deliqui di fanciulla come di morbose modulazioni erotiche, di commoventi e tragici singulti di morte. Così grazie a una tecnica raffinata e a una classe eccelsa Amarilli Nizza trasforma la Manon Lescaut di Puccini nel paradigma perfetto della donna anticonformista, dalla esistenza peccaminosa, trasgressiva e fonte di trasgressione, definitivamente lontana dalla inquietudine, dal sentimentalismo e dall’ansia indefinita del romanticismo così come lontana dalla dignità domestica, composta e meditabonda nel clima doloroso ed emergenziale, armi e ferite, lettere dal fronte, cuciture di bandiere, preghiere ai piedi dell’altare, tipica dell’ormai conclusa iconografia risorgimentale.
Accanto ad Amarilli Nizza Walter Fraccaro dà voce a Des Grieux con generosità, senza risparmio di risorse e una fonazione questa volta impeccabile. Ma la costruzione del personaggio nella sua deriva da studente castamente innamorato a complice di inganni, furti e fughe per amore appare ancora un miraggio.
Assai discontinua la direzione d’orchestra di Frizza, che se sa avvalersi di maestri solisti di altissimo valore quale l’oboe, il flauto e l’arpa, perde a tratti l’armonia timbrica dell’orchestra nel suo insieme. Tuttavia la esecuzione dello stupendo Intermezzo, con la totalità dei richiami tematici è efficace ed eloquente nel tratteggiare la dinamica psicologica dei personaggi, così come coinvolgente è il ritmo imposto dalle situazioni della tentata fuga di Manon. Intenso e struggente l’accompagnamento nella scena finale della morte di Manon, ove il dilatarsi dell’orchestra in tempi lunghi trasmette un senso di infinito e una eco, ripresa dal tetto del mondo, di accadimenti tragici che appaiono estranei e sono invece la nostra stessa essenza. Un raccolto racconto musicale che sommesso e pregno di meditazione durante tutta la scena, diventa infine prepotente e perentorio richiamo a valori morali.

mercoledì 5 gennaio 2011

Scuderie del Quirinale 2010


I pittori del Risorgimento “1861”
Melanconica narrazione dell’epopea Unitaria d’Italia

Protagonista del Risorgimento, Garibaldi è protagonista anche della splendida Mostra “1861” alle Scuderie del Quirinale. Si eleva nella imponenza della sua bellezza nel magnifico ritratto di Silvestro Lega, dal quale si coglie una personalità che senza imporre l’autorità, invita alla sottomissione e sollecita il rispetto. Si eleva rispetto a tutti gli altri protagonisti raffigurati nei quadri, ma con essi condivide lo sguardo, anche nel ritratto di Lega. Uno sguardo rivolto verso il basso, verso qualcosa di invisibile o forse inesistente. Verso qualcosa di remoto. Non è lo sguardo di un guerriero, ma lo sguardo di un malinconico. Uno sguardo, in questo bel ritratto di bell’uomo, persino più triste dello sguardo dipinto da un altro pittore patriota, Gerolamo Induno, nella “Discesa d’Aspromonte”. La ragione va forse cercata nella immensità di dolori e miserie che insieme a eroici episodi segnarono tutto il percorso del Risorgimento, e che infusero nei pittori una malinconia rassegnata e quasi abulica. Nel quadro di Gerolamo Induno ogni cosa è in disordine. Il generale viene portato a spalle dai suoi fedeli, come se fosse una bara, su una rozza barella. I garibaldini scendono dal monte confusamente, angosciati, stupiti, disorientati. Non sapendo dove guardare ognuno guarda in una direzione differente, e qualcuno fissa perfino il vuoto. Un giovanetto in primo piano, il capo coperto da un cappuccio bianco, impietrito dal dolore spinge lo sguardo attonito davanti a sé, verso il nulla: è Enrico Cairoli, che forse vede il nulla della morte che lo aspetta pochi anni dopo a Villa Glori. Il silenzio, il disordine e la malinconia che accompagnano gli eroi avventurosi verso un desolato ritorno, offuscano l’epica di una impresa patriottica, per descrivere invece l’angoscia di una gita finita male.
Gerolamo Induno era un pittore militante credente e presente: non aveva mancato nessun appuntamento con il futuro mondo italiano. Nel 1848 a Milano, nel 1849 a Roma, nel 1855 medaglia d’onore in Crimea, e poi dal ’59 finalmente con Garibaldi. Aveva combattuto e vinto, ma tutte le sue opere risorgimentali, sembrano indicare un amore non per la battaglia o la guerra ma un rassegnato amore per la prostrazione e la sconfitta. Anche nell’affollata tela intitolata “L’imbarco a Genova del generale Giuseppe Garibaldi”, allo scoglio di Quarto, nessuno esulta, nessuno gioisce, nessuno mostra eccitazione per una impresa che sarà storica. Dominano l’opera la mesta cerimonia degli addii e il rituale pianto di una fanciulla prima della separazione. Sull’ultima scialuppa poco lontana alla fonda, il generale, quasi lugubre in un mantello nero da cui spunta solo un lembo rosso della sua celebre camicia, rivolto verso la riva saluta con un austero e mesto gesto di benedizione. Tutta l’atmosfera irradia un presentimento triste e sconsolato che toglie alla imminente storica partenza tutta la poesia e la retorica di cui in seguito fu circondata. Nel suo itinerario di pittore Induno, nel dipingere la sua sconsolata visione del tempo che testimoniava, sembra che non faccia differenza tra gli esterni e gli interni: gli esterni del furore delle battaglie e gli interni domestici del rimpianto e dell’attesa. Dovunque è disordine. Un disordine che lontano dall’essere elemento essenziale per segnalare la veridicità dell’immagine diventa lo stigma di una disarmonia, l’elemento testimoniale che qualcosa è assente o si è perduto. Nella “Lettera dal campo”, nel meraviglioso interno di una povera casa italiana ottocentesca, ogni cosa sembra andata in rovina o destinata a essere dimenticata dalle giovani donne e dai vecchi genitori attratti e mesti di fronte alle notizie dal campo. Così il pavimento pieno dei miseri rifiuti, i muri cadenti e tormentati dalle crepe rispecchiano la tormentata attesa dei familiari e il disordine dei pensieri nostalgici e degli affetti timorosi. Scena similmente triste e assorta quella del “Racconto del ferito”. Gli assi sbrecciati nel soffitto, le pareti annerite dal fumo, le mattonelle sconnesse nel pavimento dove ogni oggetto che cade non può che farsi irrimediabilmente detrito, testimoniano la infinita povertà riportata dal campo nell’ambito degli affetti e delle gioie familiari. Il pavimento malandato non è dissimile dal terreno dissestato e polveroso della “Battaglia della Cernaja”, dove Induno nella immensa distesa dell’arida terra di Crimea non celebra né vittorie né glorie. La vittoria così politicamente importante dei piemontesi sull’esercito russo diventa irrilevante di fronte all’attimo sacro dell’estrema unzione che un cappellano militare impartisce a un soldato nemico agonizzante tra le braccia di una suora. Così l’agonia e la morte, diventano i temi del quadro, temi fuori da ogni tempo storico, inoppugnabile conseguenza, e indiretta condanna, di ogni atto di guerra. Così i soldati del generale La Marmora e lo stesso generale, altero sul suo cavallo, che dall’alto del monte che sovrasta il fiume Cernaja, volge lo sguardo verso l’orizzonte, non sono né comandanti, né fanti né bersaglieri ma solo figuranti, massa amorfa, oscura e confusa, impotente cornice al pietoso gruppo che assiste il moribondo steso sulla terra, tra le pietre. Ancora pietre nella “Battaglia di Magenta” e soprattutto erbacce a terra, attorno ai cadaveri che campeggiano in primo piano, mentre dietro si combatte ancora. Nella “Presa di Palestro”, il fulcro del dipinto sono i giovani prigionieri dell’esercito austriaco sconfitto dai piemontesi, e un bersagliere che li scorta, quasi un ragazzino sovrastato dal grande cappello piumato che guarda perplesso e incerto in avanti, troppo a disagio per assumere la baldanza e la fisionomia del vincitore, simbolo di una estraniazione sofferente pur nella esultanza della vittoria. Bisognava avere la vocazione a una metafisica dei colori come l’aveva Giovanni Fattori per non vedere nelle battaglie niente altro che l’ardimento delle luci e i volumi dei corpi o le rifrazioni balenanti del loro movimento nello spazio, come accade nei due lividi dipinti “Lo Staffato” o “Lo Scoppio del cassone”. Senza tale metafisica, la sensibilità dell’Ottocento, non poteva che essere attratta dai corpi martoriati dalle cannonate, dalle baionette, o corpi sanguinanti disarcionati da cavalli in fuga e lasciati sul posto ad agonizzare. Scenari tragici, dolenti sui quali si spande amorevolmente lo sforzo senza risparmio delle donne corse in soccorso dei feriti innumerevoli e stremati, portati solitamente in chiesa. Immemorabili furono le donne di Castiglione delle Stiviere, che soccorsero i feriti nella tremenda carneficina di Solferino, il cui strazio e grande scempio portarono di lì a pochi anni alla fondazione della Croce Rossa a Ginevra.
Anche i pittori del Risorgimento, e Gerolamo Induno in specie, amavano le donne e la loro guerra privata. Stupendo il quadro in mostra alle Scuderie la “Trasteverina uccisa da una bomba”. Una ragazzina vestita coi colorati costumi delle popolane romane travolta da una bomba che ha sfondato il muro della povera abitazione, dove cuciva forse un povero corredo, giace al suolo nella scomposta posizione della morte evidente nello schizzo vermiglio che le attraversa la fronte. Il sangue. Il sangue dell’ingiusto sacrificio di una innocente, indelebile come quello di un delitto, che dal silenzio mortale della scena eleva un grido disperato di pace. Se non sono morte, le donne dipinte del Risorgimento aspettano, cuciono bandiere, gemono tra la folla, celebrano un addio, talvolta pregano. Donne tutte quante, che incarnano lo spirito che investe buona parte dell’arte e della letteratura risorgimentali: la nascita della nazione italiana non con i caratteri dell’epos ma con quelli del pathos, quasi esecuzione di una sinfonia patetica più che di una sinfonia eroica. Illuminante di tale pathos la bellissima, sensuale figura di Hayez in “La meditazione” (“L’Italia nel 1848”). L’incantevole seno turgido, nudo nella povertà delle vesti, testimonia la sconfitta, mentre una croce con le date delle 5 giornate di Milano e un libro di storia d’Italia esprimono l’orgoglio della storia patria e il rifiuto imperioso del dolore dell’universo. Di tale fanciulla colpisce soprattutto lo sguardo. Uno sguardo di intensa, aggressiva tristezza che pur nel silenzio delle labbra parla con una forza penetrante che rende colpevoli.
Anche la Pisana, la più attraente figura femminile della letteratura risorgimentale, finirà l’avventurosa, anticonformista e scandalosa esistenza di cui l’ha dotata Ippolito Nievo nelle “Confessioni di un italiano” in modo patetico, soffocata dalle fatiche e dalle privazioni per troppo altruismo. Ma la Pisana, che Nievo costruì distrattamente tra un’azione patriottica e un’altra, prima di unirsi a Garibaldi, non rientra nell’iconografia femminile trepida, commossa e mesta in mostra alle Scuderie. Qui domina un clima doloroso ed emergenziale, armi e ferite, volti tesi e allarmati, oppure euforici assai lontano dalla dignità domestica, composta o talvolta vanitosa, tutta salotti e acconciature, visi concentrati a esprimere l’estro della propria singolarità che invece descrivono altri pittori dell’800. L’eleganza del quieto vivere, aristocratico o borghese, l’energia della quotidianità individuale si contrappongono alla militanza e alla potenza, che presto si trasformeranno in debolezza di gruppo. Nell’un mondo la Storia è lontana: a ognuno il suo pensiero, a ognuno il suo piacere e il suo tormento nell’ottocentesca mistica dell’individuo da cui sgorgheranno le geometrie fisionomie anarchiche del primo Novecento. E altrettanto lontano sembra il demone della malinconia che attanaglia i pittori del Risorgimento. Sia nei ritratti realistici sia in quelli ambientati in luoghi allusivi al fasto e al rango della persona ritratta, la pittura -e la scultura- celebrano il trionfo della presenza, la fortuna di essere al mondo nel qui e ora immutabili dell’arte. Ma a riportare equilibrio tra le due rappresentazioni pittoriche del Risorgimento e dell’800 in generale, è ormai pronta la macchina fotografica. In molti ritratti fotografici gentiluomini e professionisti, belle donne e artisti offrono il volto e lo sguardo alla camera oscura come a attrezzo di tortura tuttavia concupito. Quasi nessuno accenna un sorriso: di fronte a quel mezzo che ambisce a certificare la veridicità del reale, la gloria del corpo cessa di esistere, solo l’espressione dell’anima sarà registrata. Così, subdolamente, anche nell’800 soddisfatto di aristocratici e borghesi la fotografia reintroduce la malinconia, perché l’obiettivo fotografico non consegna un marchio di realtà al mondo dell’immagine ma insinua l’inquietudine sulla transitorietà del tutto. Quelle creature che affidavano al talento del pittore il compito di scovare l’espressione più idonea, la “posa” con cui posare per l’eternità, vengono ora ricondotte dal bianco e nero della macchina fotografica alla precarietà della loro esistenza. E se non credono al farsi della storia, alla partecipazione, alla militanza, pure l’alternanza del bianco e del nero in cui la fotografia le cattura, le obbliga irrimediabilmente alla militanza della vita.