martedì 27 gennaio 2009

ROMA – Teatro QUIRINO
NATALE IN CASA CUPIELLO
di Eduardo

Poetica interpretazione di Carlo Giuffrè

“Natale in casa Cupiello” è un’opera di purissima poesia, resa ancora più alta e ispirata dal magistero interpretativo e dalla regia di Carlo Giuffrè.

Luca Cupiello è un uomo ormai alle soglie di quella età in cui tutte le scelte della vita sono già fatte e null’altro resta se non attendere eventi tanto temuti quanto ineluttabili. Eppure è rimasto un fanciullo legato alla poesia del Presepe, del profumo del muschio, della discesa dei Re Magi, della divina semplicità dei Pastori. Da questa irrisa solitudine cercano di non distrarlo la moglie e i figli, che convinti di conoscere la vita e le sue regole procedono con ossessione a tenerlo all’oscuro di tutto quanto accade nella famiglia e ai figli. E accade che una figlia sposata per comodo ad un ricco commerciante molto più grande di lei per volontà della madre, si accorge di non amarlo quando un ragazzo, più povero ma più giovane, le dichiara il proprio amore e con lui inizia una nuova relazione. La mamma le ricorda che è sposata,… che il suo uomo è quello che ha sposato,…. che le vuole bene…. e non le fa mancare nulla…. E con ottusa protervia le intima di lasciare il ragazzo, perché quella relazione fuori dal matrimonio contrasta con il buon nome della famiglia e con il buon costume dell’ambiente sociale nel quale vivono.

Al pranzo di Natale dove per caso tutti di casa Cupiello e il giovane si trovano assieme, gli inganni sommersi, i tradimenti coniugali emergono nella loro violenza distruttiva, le rivalità sopite scoppiano con prepotenza alla presenza di Luca che riportato bruscamente alla realtà subisce un attacco cardiaco che gli sarà fatale. Dal letto di morte, nel silenzio pettegolo dei vicini, nel rimorso colpevole della madre, in una atmosfera illuminata da luci pallide ed esangui Luca quasi in dormiveglia chiama la figlia e il suo ragazzo e raccomanda loro di amarsi. “L'amore deve andare con l'amore e non con la legge”. Stringe loro le mani e reclinato il capo dà l’addio al mondo.
Il Presepe tutto illuminato, comincia a spegnersi e la sua luce si trasferisce fuori sul balcone, dove cominciano a spuntare le prime luci dell’alba. I giovani benedetti dal Padre si avviano mano nella mano a guardare il sole per poter prendere luce e calore, escono sul balconcino a guardare il nuovo giorno che sta per nascere, a guardare l’alba del loro giorno. Piano piano nei pensieri dei due si fanno chiare ed eloquenti le immagini sbiadite del presepe che torna ad illuminarsi. Poi piano piano il presepe si rispegne fino a lasciare un solo raggio intensissimo che dalla capanna illumina con forza non più naturale il volto esanime di Luca Cupiello.

La semplicità dell’Uomo che crede nel messaggio del Presepe, coglie e incoraggia l’amore della figlia, autentico e non imposto dalle convenzioni sociali difese con ostinata caparbietà dalla moglie, si trasfigura e diventa il comandamento eterno dell’Amore.
Poesia. Sublime poesia.!

Manlio Mirabile
Roma - Teatro dell’OPERA
AIDA
di Giuseppe Verdi

Luminosa orchestrazione di Daniel Oren.
Sciagurata regia e dissacrante scenografia di Robert Wilson.

Luminosa e illuminante l’orchestrazione del Maestro Oren. Sotto la sua direzione tutta l’orchestra vibrante e densa di impasti strumentali illumina le infinite atmosfere, i complessi conflitti dell’opera. La musica che sa trarre pare risolvere nello smalto del suo incanto il conflitto di popoli nella cieca irrazionalità della Guerra e il conflitto irrisolto tra la felicità individuale sognata nella sfera della propria Piccola Storia e l’ineludibile, opprimente forza della Grande Storia. L’energica incisività e la sapienza con cui tutta l’orchestra è messa al servizio di tali tratti dominanti dell’opera, rinviano a un magistero capace di descrivere ambienti esotici e lontani nel tempo, così come affetti e invocazioni, dolori e disonori, trionfi, esultanze e addii, che appartengono ad ogni tempo.

Se tale è la orchestrazione di Oren, non lo stesso può dirsi della regia e della scenografia di Robert Wilson. Con la regia di Wilson i personaggi, l’anima della musica e che dalla musica ricevono una verità eterna, perdono ogni afflato di vita, ogni soffio di umanità e divengono figure “bidimensionali” come Wilson rivendica per il suo genio. Divengono graffiti su uno schermo gelido su cui inverosimili mutazioni di colore cercano di sottolineare i differenti momenti della partitura. Dalla fatale intuizione che “per ascoltare la musica occorre chiudere gli occhi”, come con protervia insistenza Wilson tenta di illustrare nel programma di sala, ne deriva che tutta l’azione scenica perde il suo significato e il melodramma si impoverisce fino a divenire semplice partitura da concerto.

E sia! Sia pure tale sciagurata interpretazione registica!

Ma perché inveire ancora con movimenti e costumi e cambi di luce repentini, che fanno scempio della musica e del libretto fino alla loro totale dissacrazione? Difficile cogliere il senso della maschera bianca, funerea di Radamès durante il canto con cui si augura l’avverarsi del suo sogno. Quale è il senso di una mano pallida aperta verso il pubblico, respingente segno di rifiuto, quando la frase musicale recita “del mio pensiero tu sei regina, tu di mia vita sei lo splendor”? Quale il senso della scena del trionfo in cui manca il trionfatore, e durante la quale inessenziali ballerini transitano davanti alle trombe che festeggiano il trionfo? Quale il senso di un “Popolo” che esulta per la Gloria d’Egitto, se tutto il coro è vestito degli stessi abiti, quasi che il popolo fosse una casta? Quale il senso della finzione mimica con cui Amneris finge di porgere il ”serto trionfale”, non azione teatrale ma quasi gioco tra fanciulli, che strappa l’irritazione o il riso? Come attribuire all’estetica dell’ascolto della musica a occhi chiusi, la collocazione degli interpreti costantemente errata? Nella grande scena del concertato finale dell’Atto II il trionfatore Radamès, sempre con gli stessi abiti e lo stesso volto funereo dell’esordio, rimane non avanti ma dietro Amonasro, il vinto. Con quale substrato culturale motivare le due mani isolate nel buio del nulla quando il canto di Aida e Radamès “A noi si schiude il ciel..” richiederebbe una ambientazione e una azione scenica che dessero sostanza visiva alla fine al contrasto della ascesa verso la luce e il cupo sotterraneo della condanna?

Sciagurata regia, di cui il pubblico della Prima ha fatto giustizia con fischi e battiti di piedi. Penoso evento che non si è ripetuto con il secondo cast, grazie forse alla straordinaria capacità degli interpreti di astrarsi dall’involucro criminoso in cui la regia li aveva avvolti e hanno dato anima e soffio vitale ai personaggi con pregevoli esecuzioni vocali. Non tutti al livello delle giovanissime e splendide Kristin Lewis (Aida) e Anna Smirnova (Amneris), certo. Ma con differenze di afflato e di capacità interpretative trascurabili rispetto allo scempio perpetrato da una regia motivata solo dall’egocentrismo irrispettoso di un sedicente maestro del palcoscenico.

Manlio Mirabile
fm.mirabile@virgilio.it
gennaio 2009

lunedì 19 gennaio 2009

In memoria di Ileana Ghione
Al Maestro Axworthy.
Ho avuto il piacere di assistere ieri sera al melologo quale spettatore di una delle Serate d'Amore per la immortale Ileana.
La stupefacente voce recitante della signora Vukotic ha trasmesso emozioni di rara intensità e bellezza. Una voce limpida, mai offuscata da segni di stanchezza, pura nella dizione perfetta, aderente nella intensità espressiva al testo nei momenti idilliaci delle descrizioni del paesaggio o in quelli più sofferti della descrizione degli stati d'animo o nella ripresa dei dialoghi. Voce e recitazione hanno dato prova di un magistero interpretativo memorabile e consegnato a noi spettatori un gaudio commosso nel ricordo di quell'altro altissimo magistero che fu Ileana.
A lei, Maestro, che a tanta dovizia di voce e recitazione ha dato il supporto di una musica fascinosa, trasfigurazione della musica della parola nella musicalità del piano, sento di dover rivolgere un pensiero riconoscente e grato per l'altissimo esempio di umiltà tanto più eloquente quanto più dato da una personalità ricca di talento e traboccante Amore per la sua Sposa. La mia commozione ancora perdurante, mentre mi spinge a rivolgermi per testimoniarle il mio affetto, mi impedisce tuttavia di continuare.
La prego pertanto di accogliere i sensi della mia devozione a lei e il mio incoraggiamento alla sua opera di diffusione. Perchè Ileana viva.
Manlio Mirabile
AL TEATRO QUIRINO di Roma

IL SINDACO DEL RIONE SANITA'
di Eduardo


Al Maestro Carlo Giuffrè.

Poche sere fa al Quirino, ho avuto il privilegio e la Fortuna di poterla rivedere su quello storico palcoscenico dove 47 anni fa il Sindaco vide la luce. Ero allora presente, lo sono stato ora, provando tuttavia emozioni e sensi di trasalimento non provati allora e solo di rado provati successivamente. Alcune furono la lacerata umanità del suo Giovanni in la Fortuna con la Effe Maiuscola e il suo sognante Luca Cupiello in Natale in casa Cupiello.

Con queste poche riga vorrei esprimerle la mia umilissima, irrilevante e del tutto anonima riconoscenza per tanta dovizia di emozioni. La sua arte di interprete e di regista, in una felice commistione di immedesimazione e di creatività, hanno raggiunto vertici cui solo pochi possono accedere per occupare un posto, che la letteratura teatrale assegna solo a pochissimi suoi predecessori.
La sua duttilità espressiva, nella parola e nella gestualità, la costante e perfetta aderenza di ogni singolo gesto al testo, davano alla sua interpretazione una completezza assoluta. Tutto ciò non nella stasi del personaggio sempre uguale a se stesso seppure descritto in diverse situazioni, ma nella dinamica spirituale che lo porta dalla riverita imponenza e cosciente prepotenza del primo atto, alla maturazione spirituale e culturale del secondo atto. La ferita che porta Antonio Barracano alla morte, è anzitutto una ferita al suo modo di essere Sindaco. Un Sindaco insindacabile né dai parenti né da quello scampolo di misera gente che cui dà a suo modo soccorso. E’ una ferita alla sua cultura della giustizia domestica, autoconcepita e posta in essere autonomamente. Una ferita dalla quale nasce un uomo nuovo che di fronte ormai alla parola fine, sente il bisogno di trasmettere una eredità di pace raccolta con slancio devoto da Fabio, non a caso Fabio Della Ragione: l’eredità di una speranza fino allora disattesa; la speranza nell’avvento di un mondo un po’ più quadrato in nome della legalità; la speranza della fedeltà della parola ai fatti; la speranza infine cristiana dell’essere semplicemente il SI si e NO il no.
Alla trasfigurazione di Antonio Barracano dalla autocoscienza del primo atto alla rassegnata presa di coscienza del secondo, lei Maestro, conferisce una ricchezza di sfumature che con la mobilità degli occhi e una gestualità progressivamente più misurata e raccolta diventano ad un tempo racconto del personaggio e presagio. Presagio dal quale si intravedono già le conclusioni del suo non concluso discorso commensale: l’accorata invocazione alla giustizia senza vendette individuali, senza sangue, fortemente sostenuta dal chiaro discernimento della esistenza di una luce che può cancellare tale e tanto sangue. Che altro sarebbero altrimenti quella immensa macchia di rosso che invade il palcoscenico ormai vuoto e quella luce fendente che illumina il posto che fu del defunto Sindaco?

Interpretazione e regia dunque di somma poesia, che senza nulla togliere al testo originale, ne coglie la inquietante attualità e la consegna agli spettatori con la carica immensa della sua Speranza.

Grazie Maestro e Auguri di lunga vita. Perché il teatro viva.

domenica 18 gennaio 2009

ROMA - Teatro ITALIA
Vestire gli ignudi
di Luigi Pirandello

Struggente e ispirata interpretazione di Vanessa Gravina

Tutto il teatro di Pirandello si snoda lungo i paradigmi irrisolti dei rapporti tra realtà e finzione teatrale, personaggi e autore, verità e follia, soggettività e oggettività, sostanza e apparenza. In Vestire gli ignudi tali paradigmi si arricchiscono di un altro epigono: l’essere, il voler essere, il non essere. Paradigmi che lungi dal solo prestarsi a soggetto di un evento teatrale appartengono e coinvolgono in una compromissione totale l’essere umano e il suo evolversi. Coerente con tale visione il regista Walter Mafré nella edizione di Vestire gli ignudi in scena al Teatro Italia, annulla ogni sipario quale diaframma divisorio tra realtà e finzione, trasforma la platea in una sorta di entrata in palcoscenico, attraversando la quale la protagonista Ersilia Drei (Vanessa Gravina), raccolto i brandelli di umanità diffusa nella platea se ne fa carico e sale sul palcoscenico a darne vita e ispirazione poetica. Tutto l’addobbo della scena, privo di fonti di luce naturale, di poche suppellettili immersi in uno spazio angusto tra cui primeggia un vecchio proiettore di film, strumento fruibile di recupero della memoria e del passato, anticipa la tragica solitudine della protagonista nelle ineludibili scelte del suo vivere e del suo morire.
Capovolgendo schemi tradizionali nei quali gli eventi si susseguono in una rigorosa successione fino alla loro conclusione, la commedia ha inizio quando i fatti di cui si sostanzia la trama sono già avvenuti. Fatti di tale ricchezza e di tale attualità da essere oggetto di un rotocalco e tali da ispirare un romanziere. Il dramma ha inizio: il romanziere Ludovico Nota (il pacato e sottile Luigi Diberti) ha una visione dell’opera che si appresta a scrivere che contrasta se non con i fatti accaduti con la spiritualità e la dolente sensibilità con cui la protagonista Ersilia li ha vissuti. La concitazione del dialogo tra Ersilia e il romanziere raggiunge vertici rari di verità nell’arte interpretativa. Ersilia coglie nella forma del romanzo che lo scrittore vuole dare alla sua storia una forma ulteriore di violenza, ancora più sottile e perfida di quelle già subite, e con dolente fierezza risponde. E volendo non soggiacere, ritorna con la memoria a descrivere la sua storia, una storia di un’anima sofferente, umiliata, incolpevole eppure assalita da rimorsi. Una storia per il cui racconto non hanno alcun senso né la collocazione geografica né quella temporale cui la vuole costringere il romanziere, perché la sua è una verità non legata né al tempo né allo spazio. Nella enunciazione di tale verità la intima, sussurrata ma ferma espressione della Gravina si eleva alla dignità del diritto insopprimibile di ciascuno alla rivendicazione e difesa della propria storia contro la amorale manipolazione violenta e falsa di giornalisti e romanzieri.
Quanta verità e attualità in tale difesa strenua e sofferta!
La sua è la storia di una notte di amore con il console italiano a Smirne della cui figlia, Ersilia è istitutrice. Una notte subita per la violenza del console e vissuta sull’orlo della disperazione, la quale si conclude tragicamente con la morte della bimba del console. La piccola è affidata alle cure di Ersilia ma avendole perse in quella notte per l’improvvisa scoperta dell’incontro adultero da parte della madre, precipita dalla terrazza e muore. Scacciata, da Smirne torna a Roma dove apprende che il tenente di cui era innamorata sta per sposare un'altra. Spossata, delusa, senza soldi, quasi per accentuare il ribrezzo che ha di se stessa, si concede al primo passante e quindi tenta il suicidio avvelenandosi. Ma trasportata in ospedale si salva. Tornata alla vita e intervistata da un giornalista vuole lasciare di sé un ricordo meno disonorevole della realtà da lei vissuta e racconta una sua verità degli eventi: di essersi avvelenata perché abbandonata dal fidanzato. La sua storia finisce su un giornale suscitando commozione e partecipazione del pubblico alla sua tragedia. Ma ne è smentita dal console, che vorrebbe riaverla come amante e dal giornalista che avendola scoperta amante del console l’accusa di prostituzione e di omicidio colposo. Il dramma di Ersilia è il dramma di chi sentendosi priva di affetti, di comprensione e di perdono, sentendosi nuda, e di per se stessa giudicandosi insignificante, si riveste dei panni, che gli altri gli fanno indossare seppure ipocriti e laceri. Nella progressiva percezione del dramma che incombe su Ersilia, creatura fragile e dolente, Vanessa Gravina raggiunge una verità interpretativa lacerante e struggente fino alla allucinazione, vittima impotente di accerchiamenti, ipocrisie e seduzioni accomunate da una animalità mal celata e mai confessata da rispettabili diplomatici o scrittori. Una animalità sordida che diffonde inesorabile il senso torbido della abiezione. C’è nella sua ultima spiegazione di non aver potuto avere una propria identità, una propria anima, un proprio vestito, la esplorazione lucida e tragica degli abissi vertiginosi e bestiali dell’anima abietta, a fronte dei quali non v’è arretramento possibile ma soltanto la resa e la Morte. E prendendo per mano il fantasma candido e intatto della bimba morta, unica verità irrefutabile, scende dal palcoscenico verso la platea cui consegna per sempre la sua obliqua verità.
La verità che ciascuno vive diversamente da quella che trasmette.

fm.mirabile@virgilio.it