venerdì 24 dicembre 2010

REGGIO CALABRIA-TEATRO FRANCESCO CILEA

LA BOHÈME di Giacomo Puccini
Poetica narrazione di quella gioiosa malattia che è la giovinezza

E’ raro perché difficile riuscire a mettere in scena in modo convincente un’opera così ricca di personaggi, ambienti, situazioni e vicende. Un giocondo prodigio è invece accaduto a Reggio Calabria in uno spettacolo quasi perfetto: nel canto, nella orchestrazione, nella regia, nei costumi, nella scenografia.
Stupefacente la direzione d’orchestra di Gianluca Martinenghi. La descrizione della soffitta gelida nella vigilia di Natale con cui l’opera si apre, è una fioritura continua di colori orchestrali che con la stessa bellezza dei pittori impressionisti esprimono più del testo il senso gioioso e canzonatorio con cui giovani ricchi di talento ma poveri di mezzi si ingegnano per coniugare pranzo e cena. Domina una atmosfera surreale riscaldata da una stufa spenta, che in fondo alla scena pare simboleggiare lo spegnarsi dell’anima a fronte di una vita priva di prospettive e densa di incognite. Lo sfavillio dell’orchestra dà alle note una forma di materialità che zampilla sugli spettatori e crea risonanze inebrianti e coinvolgenti. Una pioggia di note modulate in una rifinitura di alta poesia, piove sugli spiriti più diversi e li convoca davanti al mistero di quella divina malattia che tutti colpisce e da cui tutti guariscono: la giovinezza. L’età dei sogni, delle chimere, delle lusinghe, delle seduzioni, delle gelosie, interrotta ingiustamente dalla ineluttabilità della morte.
In quella povertà della soffitta poco riscaldata e ancor meno illuminata, irrompe una fanciulla vicina di casa che chiede luce per il suo lume. In realtà cerca l’amore e il calore dell’amore. Così la povertà si arricchisce e il gelo diventa calore. Mimì e Rodolfo già segretamente innamorati si cercano, si trovano e si raccontano. Il canto bellissimo di Lorenzo Decaro (Rodolfo) in “Che gelida manina” è arricchito dalle movenze sceniche di Amarilli Nizza. La quale lontana dalle interpretazioni stereotipiche, dà con le sue eloquenti movenze pregnanza di verità al canto del giovane. Lei ne è innamorata e lo lascia capire dall’estasi con cui lo ascolta, sfogliando con grazia tutta femminile le pagine delle sue rime di poeta, offrendogli dolcemente gli occhi sulla frase “ruban tutti i gioielli due ladri: occhi belli”. E poi gli risponde con il racconto di se stessa “Sì, mi chiamano Mimì”, un racconto cesellato da preziosità di canto e di vezzi di giovane innamorata che si predispone al dolcissimo gioco della seduzione e lo accetta. Racconta il suo svago nel ricamo di gigli e fiori, ma al poeta, con una dizione melliflua, tenendo ancora tra le mani le pagine delle sue rime, con un porgere leggiadro del volto, dichiara, dichiarandosi, “..mi piacciono quelle cose che han nome poesia. Lei m’intende?” L’amore è sbocciato e la scena concepita da Mario De Carlo lentamente si illumina di una luce calda e radiosa assai diversa dai colori lividi e invernali precedenti. In tale mutata atmosfera Mimì continua il suo racconto di giovine sola in una cameretta bianca, che teme il freddo e guarda sui tetti e in cielo, in attesa della primavera. Sulla nota de “il cielo” in cui la pronuncia dà nitore alla dolcezza delle vocali, Amarilli si sofferma a lungo e con il prolungarsi del respiro fa cogliere l’infinito del cielo. Poi lo sguardo, alto verso i tetti e il cielo, ritorna basso sulla frase “il primo sole è mio”, una frase cantata mentre le braccia, prima stese, via via si chiudono a carpire il sole e a tenerlo tutto. E poi ancora “il primo bacio dell’aprile è mio” è cantato con mirabile fonazione della vocali in rima di bacio e mio e con la m di mio come se fosse doppia, certezza di una proprietà incontestabile. Ma mentre con tale allegra certezza racconta il suo spiare il germoglio di una rosa profumata, il rinascere della natura a ogni primavera, tristemente riconosce che i suoi fiori non hanno odore, cosciente affermazione che la sua storia è stata e sarà breve, priva di profumo, di speranze, di giocondità. In quell’aria, l’arte della Amarilli raggiunge vertici di poesia sublime. In essa si coglie tutto il mistero di una giovinezza che ambisce all’amore come sollievo alla povertà e alla sofferenza, cosciente tuttavia del male che l’ha colpita.
Intanto fuori e lontano da quella soffitta la vita palpita e continua con i suoi caffè, i suoi mercatini, le sue bande, la sua festosa frenesia, le sue civetterie sognanti. Il Caffè Momus nella splendida interpretazione scenografica di De Carlo è la sintesi del mondo della Belle Epoque. Un mondo nel quale ricchi e poveri, vecchi e bambini, nobiltà e venditori ambulanti, immagine riflessa delle molteplici stratificazioni sociali, esibiscono una vitalità inarrestabile. Protagonista assoluta di tale mondo è Musetta che descrive se stessa e quel mondo col celeberrimo Valzer. Maryna Ziatkova seducente con il suo cinguettante canto rivela la personalità più eterea e seducente nel rinnovato incanto di una nuova femminilità che abbandonato il tradizionale ruolo sommesso e sottomesso della donna, insegue gli itinerari ameni del lusso e della mondanità, inconscia prigioniera di stati mentali erratici e sognanti. Così il volto della femminilità dispiega espressioni di una emancipazione serrata, che cerca di affermare il ruolo della donna-amante, corteggiata, inseguita, eroticamente inquietante. Un quadro festoso e sgargiante nella ricchezza dei costumi, nello sfavillare delle luci, dei colori, della preziosità dei costumi che si chiude coralmente sulle stessa melodia di Musetta, testimonianza della accettazione indiscussa del suo nuovo credo. Trattasi tuttavia della fine di un sogno e del triste ritorno alla realtà.
Nelle brume di una giornata d’inverno, nel silenzio ovattato della neve che fiocca, Mimì sola racconta a Marcello (un Cüneyt Ünsalin in gran forma) la gelosia di Rodolfo e ne invoca aiuto. Amarilli pronuncia “Aiutateci, Aiutateci voi”, stendendo le mani verso l’amico con un realismo e una intensità comunicativa che danno alla sua implorazione tutta la forza di una fede nel potere salvifico ma immaginario dell’amicizia. Ma Rodolfo non è geloso, è invece torturato dalla sua impotenza di fronte alla malattia e alla ineluttabile fine di Mimì. Tutto è inadeguato a darle sollievo: la sua squallida stanza, il freddo, l’umidità, l’aggirarsi della tramontana, il suo stesso amore non può richiamarla in vita. Un racconto triste la cui desolazione è stupendamente resa palpabile e irradiata nella sua verità dalla melodia triste e soffusa degli archi e dei fiati. Un racconto che Mimì ha ascoltato non veduta e che le procura un dolore mortale. L’Ahimè! Ahimè. E’ finita! è cantato come definitiva assunzione della coscienza di una fanciulla innamorata che intravede ormai la fine dell’amore e della stessa esistenza. E allora con la mente ingombra di presagi tristi trova rifugio nelle illusioni liete vissute nel suo nido solitario da dove uscì lieta al grido d’amore e dove ora ritorna per intessere finti fior. Il canto di Amarilli fa del finti, il punto focale della romanza: struggente riflessione sulla finzione dei fiori quale emblema della finzione della vita, che appare ricca ed è povera, appare lunga ed è breve, appare felice ed è sofferenza. Eppure la forza della giovinezza porta ancora i due innamorati a un incontro che sembra di addio e invece si trasforma nella promessa di non lasciarsi soli nel freddo dell’inverno; ma di lasciarsi solo a primavera, nella stagion dei fiori, quando sarà il sole a esser compagno. Gli accordi degli archi e dei fiati durante il duetto della promessa sono sfumati, languidi, magistralmente descrittivi al contempo della dolcezza intima degli amanti come del malinconico paesaggio invernale. E’ una melodia sognante che l’irrompere secco e repentino dei timpani e degli ottoni, trasforma nel presagio di una fine imminente e tragica.
La malattia di Mimì si aggrava, le cure sono più impellenti, le risorse più scarse. In un trasporto di intenso affetto e autentica devozione, alla ricerca di spiccioli Colline il filosofo (Alessandro Tirotta) pignora la sua zimarra. Ma prima di portarla al Monte di Pietà (il sacro monte) dà l’addio alla fedele amica, testimone di giorni lieti vissuti nell’affanno ma mai nel disonore, orgoglioso di non aver curvato il logoro dorso ai ricchi ai potenti. Il gesticolare lento e cadenzato di Colline nel piegarla, quasi ad allontanare il tempo del suo addio, rende densa di commozione e di simboli un’aria breve, scrigno del suo passato. La straordinaria orchestrazione diffonde un senso di solitudine e di melanconia reso più intenso e vibrante dalla penombra creata da luci che nettamente dividono lo spazio scenico in due, demarcazione netta tra passato e presente.
Tutta l’atmosfera si rivolge al passato. Le luci diventano quelle calde e radiose dei giorni belli, l’orchestra riprende l’aria di Rodolfo del primo incontro, con la dolcezza lieve dei fiati e la dilatazione successiva a tutta l’orchestra, dominata dagli sfavillii dei violini. Un brevissimo interludio magico, in cui l’orchestra diventa lei stessa interprete nella descrizione con gli splendidi colloqui degli strumenti, dell’atmosfera sognante ma perduta del primo sì. Nella soffitta sono ormai soli Rodolfo e Mimì. Il suo pallore, l’andatura barcollante, la frequenza dei colpi di tosse, annunciando la fine accentuano il bisogno del ritorno al passato, unico periodo felice di una gioventù condannata a concludersi anzitempo. Su di una poltrona, la Mimì di Amarilli canta prodigiosamente con Rodolfo l’ultimo duetto ”Sono andati, fingevo di dormire”. La sua anima straziata e rassegnata, ondeggiante tra la nostalgia del tempo andato e la coscienza dell’imminente fine, è resa con una interpretazione della voce e una gestualità di una eloquenza e di una verità supreme. La pronuncia del sei nella frase “Sei…tutta la mia vita!” e il successivo “Mi chiamano Mimì e il perché non so” sono rese con note sempre più lunghe, con il canto che diventa recitazione, e la recitazione sempre più sincopata e affannosa, i brividi più intensi ed evidenti. Un barlume di vita si riaccende con gioia al ricevere di un manicotto sulle mani allividite e nell’assaporarne il tepore. Con uno scuotere leggero della testa Amarilli dà a questi ultimi istanti di vita il messaggio confortevole che piccole cose possono aver ragione di sofferenze intense e produrre dolci sensazioni come il dormire. “Le mani al caldo e …dormire”. Appare un ritorno alla vita e invece è la fine. E’ il sonno eterno. In attesa di un medico, di una salvezza esterna che “verrà” in un domani senza fine, Mimì declina il capo, il manicotto le scivola dalle mani. E’ morta. Raramente è dato di assistere a un trapasso così naturale, così vero, così commovente. Felice l’intuizione della regia di De Carlo di far morire Mimì su di una poltrona, invece che in un letto. Il venir meno della vita è meno apparente e il giungere della morte quasi inosservato. Rodolfo non ne ha coscienza e chiede “che vuol dire quell’andare e venire così? Straordinario Decaro nel conferire alla frase tutta l’inutilità della domanda di fronte alla morte. Così che la stessa è pronunciata con sospensione: que.. andare..…e… ven…così? Che è attesa, stupore e coscienza del declino temuto. Col pianto singhiozzante di Rodolfo, sul grido Mimì, Mimì, l’orchestra esplode magistralmente con le note dell’ultima aria mesta e rassegnata di Mimì, arricchite da un ritmo cadenzato di ottoni che descrivono l’atmosfera lugubre di morte e di esequie. Le luci di scena si abbassano lentamente. Il triste trapasso si è consumato. Le note estreme, dapprima da brividi e via via smorzate, inondano il pubblico strappando con gli applausi un scroscio di lacrime.

sabato 27 novembre 2010

Il CD di AIDA - Verona 2009


Poetica e incantevole interpretazione
di Daniel Oren e Amarilli Nizza
La Guerra come metastasi della Storia
Tutta la sublime narrazione musicale dell’Aida ha come sudario soffocante la potenza distruttiva della Guerra e delle sue inique metastasi. La Guerra che trasfigura gli spiriti e travolge le anime in umiliazioni non mascherate né avvolte di pietà. La Guerra sotto il cui imperio è impossibile amare ed essere giusti. La Guerra che annienta ogni percezione della miseria umana necessitante giustizia e amore. La Guerra che nell’ardore della vittoria e nell’ansia del trionfo genera una forma di voluttà massiva nella quale la preghiera diventa blasfema e ogni barlume di pietà perde di significato.
L’Aida è la narrazione ricca e struggente di quante falsità e quanta distruzione la Guerra possa generare. E’ nella prospettiva della guerra che trova giustificazione il tramare di Amneris, potente e astuta figlia del Faraone, affinché condottiero delle truppe egizie sia il giovine che lei ama. E’ nella attesa della vittoria in guerra che si colloca il sogno di Radamés, condottiero anonimo, senza lignaggio né storia, di conquistare Aida, fanciulla schiava, vittima innocente di altri furori di guerra. A Radamés nominato condottiero, la casta dei nobili, la schiera dei sacerdoti e il popolo, invocando i sacri Numi in una blasfema invocazione della Guerra, augurano di tornare vincitore. Nella follia disumana che pervade tutti nel grido atroce di Guerra e Morte allo stranier, v’è sola una luce di umanità che si accende tremolante nella sontuosità dell’augurio “Ritorna vincitor”. E’ la voce della fanciulla più pura, più incontaminata, più sofferente, più presente a se stessa nel pronunciare e udire l’empia parola. E’ la voce di Aida. Alla opulenza orgogliosa delle casti dominanti, avide di vittoria e assetate di sterminio, si contrappongono il suo canto e la sua meditazione. Una meditazione sommessa e intima sul destino della sua patria, dei suoi fratelli, di suo padre in catene, una meditazione su se stessa, sull’amore per Radamés suo unico raggio di sole, sul suo destino di schiava rivale in amore di Amneris. Nel contrasto tra l’amore nobile e alto per la patria e l’amore umanissimo e intenso per il suo uomo, avverte l’insostenibile oppressione di un mondo che rende blasfema la sua preghiera, delitto il suo pianto e colpa i suoi sospiri. In tanta cupa oppressione si fa viva per la prima volta un desiderio, presagio di liberazione eterna: la Morte. Così l’intensa meditazione si trasforma in una accorata preghiera ai Numi di soccorrerla nel suo soffrir perché il suo Amore tremendo e fatale, la consegni alla morte. Una canto struggente sintesi della poetica di Aida, opera non lineare nella quale il furore guerriero diventa disumano, e la Guerra nella sua ossessione distruttiva di case, nella profanazione dei templi, nel rapimento delle vergini fanciulle, nella frantumazione degli affetti individuali si conferma inesorabile metastasi della Storia. E infatti dopo le invocazioni blasfeme allo Spirito animatore e fecondatore del mondo, perché protegga l’Egitto, la guerra giunge e con essa i vincitori trionfano e i vinti gemono incatenati e schiavi. La sontuosa celebrazione del trionfo dell’uomo cui Aida ambisce e la umiliazione di Amonasro, suo padre vinto e in catene, accentuano la desolata solitudine di lei vittima di un amore disperato. Con il trionfo, Radamés avrà forse anche la mano di Amneris e per lei resteranno la morte e il nulla. I cupi vortici del Nilo le daranno tomba, e pace e forse oblio. E nella trepida attesa di conoscere da Radamés il suo destino, si eleva in un canto di una nostalgia struggente. In una notte rischiarata dal pallore lunare, al domestico ruscellamento del Nilo descritto stupendamente dal tremolio degli archi e dalla melodia dei fiati, tornano intatte alla mente la sua patria, i cieli azzurri della sua terra, le valli, i colli, le rive profumate, il dolce asilo della sua fanciullezza, i luoghi dei suoi primi bagliori d’amore. Immagini di giorni beati che appaiono non rifugio al dolore ma totalità di una vita cui dovrà dire Addio! La perfezione stilistica e la ricchezza di riferimenti di questa aria sublime riportano alla memoria l’Addio di Lucia ai suoi monti, quell’addio che Verdi conosceva per l’adorazione che aveva per Manzoni, il suo Don Lisander.
Tuttavia una prova ancora più atroce attende Aida. Il giungere a sorpresa di Amonasro invece che di Radamés è il principio di un duetto immortale per densità di sentimenti e inattese mutazioni dello spirito della fanciulla. Il re etiope medita la ripresa delle armi, ha preparato tutto, gli manca solo di conoscere il sentiero del nemico. Un sentiero conosciuto da Radamés e che solo Aida può riuscire a fargli svelare. Nella impossibilità di rinunciare al combattere, ma nemmeno potendo sciogliere i dolci nodi della paternità, tra pietose promesse di riportarla in patria e ai suoi templi d’or, le chiede di tradire Radamés e carpirgli il segreto. All’orrore con cui Aida gli risponde, il re guerriero l’umilia con una ferocia terrificante: Non sei mia figlia! Dei Faraoni tu sei la schiava. Un insulto scagliato da un padre che in nome della guerra atterrisce la figlia e la rinnega. Un attacco violento e distruttivo, esemplificazione della tragedia della grande Storia che si abbatte sopra la piccola storia. Aida cadrà sui cumuli dell’amore distrutto, ma proverà di non essere schiava dei Faraoni, proverà di essere degna della sua Patria. In un pianto intenso, irrefrenabile, accetta il supremo sacrificio e accoglie affranta il peso immane del suo amore per la Patria. Oh patria! O patria …quanto mi costi!
Il successivo duetto con Radamés appare un duetto d’amore i cui i sogni di gloria, di vittorie e amori felici del giovine si intrecciano con la proposta di Aida di fuggire, per sottrarlo al tradimento e non perderlo. Poetica esaltazione e sogno impossibile di abbandonare lande ignude, scordare terre inospitali e cercare altrove estasi beate. La tensione eroica della fanciulla nell’estremo tentativo di salvare Radamés, si coglie intatta nelle sue frasi brevi su cui il respiro si sofferma, prolungamento della dolcezza del sogno e attesa della sua realizzazione. Il rifiuto di Radamés a fuggire è l’esatta inversione dei ruoli. Tra l’amore per la patria e l’amore per Aida Radamés sceglie la patria. La quale tuttavia per amore è da lui ingenuamente tradita. La scoperta dell’inganno e del tradimento è il momento in cui la baldanzosa vanità di un guerriero ansioso di gloria, successi e amore, diventa umanità cosciente della propria debolezza e della propria infermità. Io son disonorato, per te tradii la patria ripetuto con ossessione eleva la fatua personalità di Radamés a una sorta di eroismo che raggiunge il culmine quando pur potendo sfuggire alla legge, si ferma e annuncia, ormai uomo nuovo, Sacerdote, io resto a te. Nella accettazione della condanna c’è del grandioso a testimonianza del prevalere della somma legge della patria sugli affetti sani e santi ma privati. Inizia l’itinerario ultimo di Radamés che dall’apogeo del trionfo si avvia verso la fatal pietra tombale tra il tripudio dei sacerdoti, implacabili, ossessivi, testimoni di una casta pregna di potere e che al potere omicida non rinuncia. La condanna che sta per compiersi nonostante le implorazioni della potente Amneris, testimonia il soccombere di un altro amore umano seppure in qualche forma corrotto, di fronte alla perfidia incensurabile dei custodi di leggi inumane. Radamés colpevole di tradire la patria è condannato a morte con sepoltura da vivo. Nella desolazione che lo vede ormai privato della luce e della vita, il suo pensiero è per Aida, il cui ricordo sollecita parole di speranza: Possa tu almen vivere felice! Ma nel mesto, funereo rintocco dei timpani, al salmodiare dei sacerdoti, Radamés non è solo. Aida è con lui. Nel momento supremo dell’addio alla vita, lo spavaldo condottiero ma sincero innamorato è consolato dalla certezza di non lasciare nessuno a soffrire per lui. La Guerra che ha distrutto i suoi sogni e affetti, appare ora lontana e dimenticata nella visione beata dello schiudersi del cielo e dell’avvicinarsi degli eterni giorni. Elevazione spirituale dei giovani innamorati verso una completezza del loro amore che la valle di lacrime non ha saputo permettere. Il macigno della pietra tombale, l’immenso peso di una storia di guerre schiaccia la loro giovane età e sull’incolpevole amore scende il silenzio ristoratore che i lampi della guerra avevano reso impossibile.
Se questa è la sovrana poesia di Aida, la interpretazione discografica la rende tangibile soprattutto per merito del M° Daniel Oren e la splendida personificazione di Amarilli Nizza.
Luminosa e sgargiante l’orchestrazione di Oren. Sotto la sua direzione tutta l’orchestra vibrante e densa di impasti strumentali illumina le infinite atmosfere, i complessi conflitti dell’opera, l’evolversi delle psicologie individuali e collettive. La musica che sa trarre pare risolvere nello smalto del suo incanto il conflitto di popoli nella cieca irrazionalità della Guerra e il conflitto irrisolto tra la felicità individuale sognata nella sfera della propria Piccola Storia e l’ineludibile, opprimente forza della Grande Storia. L’energica incisività e la sapienza con cui tutta l’orchestra è messa al servizio di tali tratti dominanti dell’opera, rinviano a un magistero capace di descrivere ambienti esotici e lontani nel tempo, così come affetti e invocazioni, dolori e disonori, trionfi, esultanze e addii, che appartengono ad ogni tempo. Due sole citazioni ad esemplificazione di tali meraviglie: il concertato dell’atto II sontuoso e avvolgente nella torrenzialità dell’orchestra, del coro, dei solisti, e i rintocchi di morte dell’ultima scena: perentori, sincopati, rantoli finali di due giovani su cui si appressa a scendere il silenzio eterno.
Amarilli Nizza descrive una Aida memorabile. La prima scelta positiva e differente da altre pur grandi interpreti, è il non immaginare per la fanciulla alcuna età, lasciando indefinito il suo fior degli anni, come la descrive Radamés. Perché le sofferenze, l’angoscia, i palpiti d’amore, la durezza delle scelte non hanno né tempo né luogo, ma sono i grani di un rosario di eventi con cui confrontarsi con umiltà e rassegnazione. Amarilli Nizza canta l’Aida non come una successione di aree, concertati, duetti, forme musicali chiuse ognuna per sé e senza alcuna concatenazione. La sua interpretazione è un insieme di rifiniture di scalpello, che scolpiscono progressivamente a tutto tondo una figura di donna costretta a scelte in bilico tra l’inganno e il tradimento, la fedeltà e la rinuncia, sempre risolte con una sapienza vocale di eterea bellezza. L’acuto non è mai ostentazione o soltanto adesione alla partitura, ma elevazione verso mondi sospirati o sogni impossibili. I suoi piano sono la esplorazione delle infinite modulazioni dell’animo al mutare degli eventi esterni. Il suo respiro è l’angosciosa scoperta della iniquità degli uomini e degli eventi. Il modo con cui trasmette l’intima sofferenza al pensiero di dare l’addio ai cieli azzurri della sua terra o l’infinita amarezza per la resa di fronte alla invettiva del padre e la dolente constatazione di cui è pregna la frase “Oh, patria, oh patria… quanto mi costi, hanno pochi riferimenti nella discografia dell’opera. La quale col canto della Nizza diviene corredo continuo di tarsie: dall’esordio nella paura del fremere di una nuova guerra, fino all’ultimo vaneggiare nell’estasi di un immortale amor. A tanta dovizia di emozioni regalate dal direttore e dal soprano, non corrisponde purtroppo un cast di medesima levatura. In particolare assai lontano è il Radamés di Walter Fraccaro. Pur ignorando vistosi errori quale la pronuncia di Oh re per i sacri Numi, che diventa Oh re per i sacri nomi, si coglie una difficoltà reiterata a coniugare una fonazione corretta con l’altezza o intensità del suono. Così l’Io son disonorato, si trasforma in qualcosa di simile tra il son e il sen, quasi tastiera che batte contemporaneamente due tasti. Di Amneris (Marianne Cornetti) e di Amonasro (Ambrogio Maestri), si devono riconoscere la correttezza formale senza inciampi ed errori, ma pure la mancata immedesimazione nei rispettivi personaggi. Così il loro canto diventa esecuzione di partiture musicali non inserite tuttavia nella storia di anime.

sabato 23 ottobre 2010

IDENTITA’ e IMPEGNO

MOSTRA PITTORICA di
ANGELO CORTESE
promossa da
Artificio, nuova fucina di arti

Atterriti dal vuoto impregnato di elementi irrazionali che il tempo presente rivela attraverso le reazioni di una opinione pubblica smarrita nell’ingorgo delle sue stesse contraddizioni, ma affascinati dalla fame spirituale e dall'immensa speranza delle coscienze che tuttavia si colgono in tale smarrimento, Fabrizio Bancale, Evelina Nazzari e Gaia Riposati, avvertono l’urgenza di trovare un linguaggio di comunicazione condiviso e inventare una forma innovativa di dialogo. Tre diverse esperienze maturate nel medesimo grembo dell’arte teatrale, tre personalità accomunate dalla stessa ansia di raggiungere menti inaridite e coscienze assopite per vivificarle ed elevarle a nuovi germogli e che si trovano concordi nel riconoscere l’Arte quale linguaggio condivisibile e nel dar vita all’Artificio. L’Artificio, fucina dove si ritrova la creatività artistica, si assemblano le diverse forme d’arte, si trasmette la potenza profetica dei suoi capolavori. Fabbrica attraverso cui diffondere la parola Arte nella sua inebriante freschezza e attualità alle nuove generazioni così come alle generazioni non più giovani ma che estenuate dal proliferare di profeti respingenti, cercano rifugio in un irrazionale isolamento che le conservi immuni da ogni ipocrita contaminazione del mondo esterno. Eppure sono generazioni non settarie, ma aperte ai valori artistici di cui avvertono la straordinaria forza catartica. Ecco che nel cuore di Roma, nei pressi di quell’immenso scrigno della Grande Storia che è Castel Sant’Angelo, in uno spazio che è già testimone della piccola storia del Bagaglino e degli esordi della inarrivabile Gabriela Ferri, Artificio trova la sua collocazione e si propone con illuminante intuizione quale punto di incontro dove coniugare l’Arte nelle sue forme eterogenee. L’Arte divino dono, fiamma vivida, generosa genitrice di candide idealità, forza capace di fare del mondo un Pantheon di uomini liberi, uguali e affratellati.
In tale spazio e con tali finalità Artificio, ha iniziato il suo percorso con una esposizione di ANGELO CORTESE “La Repubblica delle arti”. Una esposizione di quadri sul tema della Bandiera Italiana che è bellezza visiva e fonte prodigiosa di riflessioni.
I quadri non sono nè numerati nè intitolati, quasi a rappresentare i diversi tasselli di un unico immenso quadro che racconta la storia e la grandezza della Bandiera Italiana. I tre colori della speranza, del candore, dell’eroismo, sono infatti ricorrenti, coniugati con sfumature cromatiche differenti, talvolta ostacolate da grate, tal’altra perforate da chiodi, oggetti contundenti, tal’altra ancora attraversati da reticolati a maglie strette. E’ la rappresetazione del cammino impervio che la Bandiera Italiana e con essa la nazione italiana hanno attraversato per raggiungere la forma compiuta e definitiva. Si legge dentro tali tasselli un mondo interiore, un senso di nostalgia, di qualcosa di desiderato e mai compiutamente raggiunto. Tasselli nei quali l’amore per la patria, la libertà ricercata, il senso di decadimento per la dignità collettiva offesa dal tradimento, il rigore morale, la coscienza del diritto e il sentimento del dovere, esprimono una tensione estrema verso una vita più alta e verso una vittoria dello spirito sulla materia. Esprimono una dialettica eroica tra la povertà dell’essere terreni e la ricchezza consolatrice dell’aspirazione a una coscienza collettiva e di popolo che sancisca una identità dispersa nel tempo. Cortese pare incarnare tutto questo nei suoi quadri. Pare un uomo nuovo annunciatore di una nuova e più vibrante sensibilità, poeta della irrequietezza interiore, della malinconia della inazione, dell’ansia di ritrovarsi affratellati dietro gli stessi colori, gli stessi valori di libertà, uguaglianza, fratellanza, assai manomessi da una coscienza individuale e collettiva del mondo e della Storia che ignorando la propria di Storia, ha dissipato la propria identità. Egli coglie allora il senso del ruolo dell’arte e suo personale nel richiamare ciascuno alla ineludibile missione di ricostruirla, pur consapevole della prioritaria necessità di superare l’ossessione distruttrice del separatismo, del territorialismo, del regionalismo. E si fa alfiere di una rigenerazione dei valori patriottici e liberali che ispirarono i moti risorgimentali e che permisero al Risorgimento di compiersi.
Dai suoi quadri pregni di macchie nere che rinviano a stormi di uccelli neri, pregni di linee oblique che si inviluppano in un groviglio di altre rette oblique, tormentati dall’ossessivo ritorno di borchie, chiodi, inferriate, si coglie tuttavia l’amara constatazione della drammatica insufficienza del tempo presente che ha distratto la ragione e sottratto risorse alla azione unificante che fu alla origine dei Tre Colori. Nuovo poeta romantico, lontano da integralismi e chiusure, Cortese rievoca il passato doloroso ma fecondo della nostra bandiera e convoca all’omaggio indiscusso, ostinato e perseverante di un simbolo di identità che ridia speranza alla dilagante disperazione e al diffuso smarrimento.

domenica 17 ottobre 2010

DUETTI VERDIANI

Amarilli Nizza e Roberto Frontali

assieme nella

Intensa esplorazione verdiana degli abissi spirituali nei rapporti padre-figlia

In sei duetti baritono-soprano il CD Duetti Verdiani propone una avvincente esplorazione degli abissi spirituali nei rapporti padre-figlia, intrecciati col più vasto e complesso sistema di poteri che li avvolge e condiziona. La non casuale scelta dei brani è una testimonianza inoppugnabile della evoluzione artistica di Verdi dal 1842 con il Nabucco al 1871 con Aida, durante il magico trentennio in cui inizia e si compie la straordinaria avventura del Risorgimento. Di tali e tanti eventi Verdi, refrattario a ogni accadimento che non fosse musica, non colse né i confini ideologici né le contrapposizioni politiche. Ma afferrò quanto le masse delle Giornate di Milano, delle battaglie di Novara e Custoza, stanche di una musica tutta frizzi, merletti e sospiri, avvertissero il bisogno di una musica priva di fronzoli ma travolgente, vigorosa, possente. L’empito romantico del suo genio colse in tali storici sommovimenti la suggestione di possibili grandi affreschi musicali, pretesto per cori gagliardi, capaci di generare suggestioni collettive ed entusiasmi di popolo in lotta per la libertà. E colse soprattutto quanto gli avvenimenti che fanno la Grande Storia abbiano effetti sulla piccola, negletta storia individuale, distruggono affetti e identità. Trasformano in cumuli di macerie armonie famigliari costruite nel solco di eredità di culture e di costumi.
Null’altro poteva essere così esplicitamente paradigmatico di tale distruzione, quanto i rapporti padre-figlia, così radicalmente trasfigurati dall’eterno imperversare delle guerre, dai mai sopiti conflitti tra poteri dominanti o classi sociali. Non pare dunque casuale la scelta di brani che delineano le mutazioni dei rapporti padre-figlia quale effetto di vicende storiche assai più grandi: la guerra tra babilonesi ed ebrei nel Nabucco, la guerra tra etiopi ed egizi nell’Aida, la guerra anglo-francese nella Giovanna d’Arco, le diatribe di potere fosco e torbido tra patrizie e plebei nel Simon Boccanegra, lo scontro di pregiudizi nell’alta borghesia francese nella Traviata, lo scontro di classi sociali nella Luisa Miller. Merito va riconosciuto a chi abbia colto tale aspetto della immensa letteratura verdiana, ma merito soprattutto agli interpreti che hanno dato voce e attualità vibrante a tanti travagli.
Amarilli Nizza anzitutto. Il soprano è grande. Grande nell’invettiva come nell’amore, nel cinismo come nella tenerezza, nella brutalità come nella rassegnazione, fonte inesauribile di intense emozioni che già solo l’ascolto rinnova intatte.
Sa trattare così bene il suo respiro e con esso effondere in una musicalità meravigliosa una autentica anima di donna, che ad ascoltarla non si pensa più né al canto né alla voce. Abigaille, Giovanna, Luisa, Violetta, Maria, Aida, assumono in lei una verità drammatica che sottraendole alla estetica della immaginazione le consegna a una umanità autentica nelle sue policromie.
Nell’episodio del Nabucco in cui Abigaille costringe il vecchio Re a sottoscrivere il decreto di morte per tutti gli Ebrei e per sua figlia convertita per amore, la risposta “Sì! …d’una schiava che disprezza il tuo poter!” alla domanda “Prigionier”?, così densa di disprezzo e irrisione raggiunge la somma tragicità di una dannazione michelangiolesca. In tale mirabile scena la potenza della voce e la sapienza del suo impiego nel coniugare il disprezzo e la irrisione fanno di Amarilli Nizza l’unica erede della incommensurabile grandezza di Maria Callas ed Elena Suliotis.
Nel duetto della Traviata Giorgio Germont tenta di convincere Violetta a lasciare suo figlio Alfredo per salvaguardare il buon nome della famiglia. La mutazioni di stati d’animo di Violetta in tale incontro lacerante sono rese da Amarilli Nizza con raffinate mutazioni della voce e della declamazione. Così mentre il “Voi!” alla inaspettata vista di Germont è cantato con vocali lunghe a rappresentare lo stupore di fronte a un signore estraneo, e l’inserto “Donna signore son io e in mia casa…”, è cantato con orgogliosa dignità e fiero vigore, con la frase “così alla misera, che un dì caduta..” esala la sua immensa infelicità che si prolunga fino allo stremo della suprema preghiera “Dite alla giovine, si bella e pura…” cantato a fior di labbra sì da conferire al canto la sublime lievità dell’anima.
In Aida il duetto è il momento in cui il padre Amonasro l’etiope re vinto, cerca di strappare a Radamès attraverso la figlia, segreti militari. All’orrore espresso da Aida “Orrore!...No, no! Giammai!” per un tale tradimento, segue la tremenda accusa “Non sei mia figlia, dei faraoni tu sei la schiava..”. Immensamente grande Amarilli Nizza nell’esprimere con le tante modulazioni timbriche la intensità del dolore provato per tale accusa. Consapevole della profanazione dei templi, degli altari e dello sterminio di madri, vecchi e fanciulli, della definitiva distruzione della sua patria che il suo amore potrebbe generare, accetta l’orrore del tradimento e il sacrificio della rinuncia. E nel saper tramutare in viva risonanza col padre: "Ah! Pietà, pietà, pietà. Padre, a costoro schiava io non sono…" il dolore di un amore da dimenticare nella certezza dell’amore più grande e solenne per la patria, raggiunge vertici di soggiogante bellezza. Irripetibile e commovente fino alle lacrime, la sua intima e dolente riflessione: "Oh patria, o patria…quanto mi costi!". Si irradia da quel canto di dolore un non so che di pacato e profondo che attesta un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo.
Nel Simon Boccanegra, opera buia, complessa e tormentata, il vecchio doge nella sovrumana gioia che lo domina quando riconosce la figlia rapita da decenni e creduta morta, si abbandona alla dolcezza consolatrice dell’abbraccio, simbolo di un nodo d’amore ormai indissolubile “M’abbraccia, o figlia mia”. E nello schiudersi di un mondo di ineffabili letizie piange di un pianto liberatorio. Anche Maria piange quando osserva il derelitto vecchio padre, col viso avvizzito dai dolori e dal tormento nella lunga attesa della figlia. Il canto di Amarilli Nizza in lacrime, lacrime stupendamente descritte da accorati arpeggi dell’orchestra, esprime l’infinita pietà della figlia per la deserta tristezza del padre: “Nell’ora malinconica, asciugherò il tuo pianto…”. Pietà che è anche lacerante malinconia di se stessa e della propria vita dispersa nel tempo, ma che nella intensità dell’abbraccio diviene speranza di un mondo meno tenebroso e torbido:
“Avrem gioie romite, note soltanto al ciel”.
A tanta luminosità di canto e tanta sapienza nella scultura vocale dei personaggi, Roberto Frontali risponde con dovizia di mezzi e severo rigore al dettato della partitura. Pare tuttavia mancare di agilità di stile nel diversificare i diversi personaggi e di uno stesso personaggio descrivere il complesso divenire psicologico. Così gli accenti implorativi di Nabucco, “deh! perdona, deh! perdona …questo veglio non implora che la vita del suo cor!” sono assai simili all’eloquio di Germont “Pura, siccome un angelo, Iddio mi diè una figlia..”. Tuttavia regala momenti stupendi di canto accorato. Nell’incontro di Nabucco con la falsa figlia, Frontali tramuta la ferocia e la durezza del monarca nel tremolio di un canuto re vinto e implorante sì da irradiare un sentimento intenso di dolore e di pietà. Così anche nel duetto di Amonasro con Aida illumina l’umanità dell’eroe nella sua tremenda angoscia di padre e di guerriero stretto tra la impossibilità a rinunciare al combattimento e la impossibilità a sciogliere i dolci nodi della paternità. L’orchestra diretta dal M° Gianluca Martinenghi è assai diligente e correttamente al servizio dei cantanti mai sopraffatti od oscurati. Tuttavia regala alcuni interludi di raffinata orchestrazione come gli arpeggi nell’incontro di Simone con Maria, prosecuzione orchestrale del pianto dei protagonisti, e nella stupenda pausa che nel Boccanegra separa l’intenso “Stringi al sen Maria che t’ama” al cantabile “Figlia! A tal nome palpito…”. Tale silenzio delle voci e degli strumenti, è il silenzio che avvolge padre e figlia nella meditazione congiunta della terrificante potenza distruttiva dell’orgia dei conflitti di potere.
Una edizione discografica dunque originale, ricca di raffinatezze stilistiche grazie soprattutto ad Amarilli Nizza, e densa di spunti che agevolano la comprensione della evoluzione della capacità di Verdi nel saper espugnare la spiritualità dei personaggi, conferendo loro una universalità ormai indiscussa.

domenica 19 settembre 2010

Puccini e la Scapigliatura


EDGAR
di Giacomo Puccini

Il testamento di un fallimento
Quando nell’avvilimento e nella delusione degli eventi che ne seguirono, si dissolse la tensione etica con cui il Risorgimento aveva impegnato e ispirato le forze intellettuali, vi fu una generazione di giovani letterati e artisti che colse l’enorme sforzo che il processo unitario aveva richiesto e l’urgenza di un rinnovamento di idealità, di forme d’arte, di espressione e di costume. Erano giovani privi di tutto e che vivevano di nulla. La Speranza era la loro religione, la Fede in se stessi il loro codice, la Carità il loro budget. Tra di essi v’erano scrittori, amministratori, militari, giornalisti, poeti, musicisti, un microcosmo indipendente, pronto al bene e al male, irrequieto, travagliato, turbolento. Un microcosmo sostanza costitutiva della follia, serbatoio del disordine, dello spirito d’indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti, assai diverso per le sue speranze e i suoi traviamenti, dal macrocosmo di giovani morigerati e adulti posati, che della vita avevano preso la strada comoda, senza emozioni ma senza pericoli. Un microcosmo tuttavia pregno di ingegni molto più avanti del loro secolo. Erano gli scapigliati italiani, un’avanguardia con il suo immenso carico di contraddizioni, ribelle a modelli precostituiti, che nata sulle ceneri degli ideali risorgimentali, aveva intravisto nella anarchia il suo polo di approdo. Ribellione e anarchia convergenti tuttavia su pochissimi temi che vertevano sul devastante conflitto fra idealità e richiamo dei sensi, fra trascendenza e materia. Conflitto rappresentato dallo scontro fra dio e satana, conflitto stupendamente elevato alla dimensione del sublime dal Faust di Goethe. Un conflitto rivisitato per riscoprirvi il gusto del macabro, del demoniaco e dell’orrido, nel contesto di elementi di un anticonformismo radicale e di una contestazione distruttiva. Contestazione di modelli di vita, comportamenti e paradigmi dell’arte letteraria, pittorica o musicale, che giungeva fino all’elaborazione di idiomi originali, in aperta sfida ai lemmi correnti. Contestazione che apriva frontiere di sperimentazione ardita quali la coesistenza nella medesima opera della componente letteraria come di quella musicale ciascuna coniugata con le proprie forme metriche e geometriche. L’ambizione degli scapigliati era superare gli steccati che dividevano le arti e dare forma unitaria a tutte le forme espressive dell’ingegno creativo. Nacque da tale ambizione l’incontro di molti scrittori con il teatro musicale. Fu un fiasco clamoroso, ma gli scapigliati non erano tanto vocati al successo, quanto allo scandalo, che interpretavano come segno della riuscita del lavoro, perché non riconducibile ai canoni dominanti.
Il libretto di Ferdinando Fontana per l’Edgar di Puccini, fu fra gli ultimi prodotti scapigliati, e le sue caratteristiche, offrono il quadro conclusivo, il testamento del fallimento della Scapigliatura, che la misera accoglienza dell’opera sancì in maniera irreversibile. Vicenda tetra quella dell’Edgar e ostica per chiunque voglia interpretarlo. Una vicenda imperniata su un improbabile conflitto fra bene e male, enfatizzato sin dal nome ad effetto delle eroine: Fidelia dolce e fedele al suo amato oltre le rivelazioni sulle sue depravazioni e oltre la sua finta morte, e Tigrana sensuale, avida di amplessi, di tradimenti e di sangue. Opera gravida di colpi di scena spettacolari quali l’incendio della casa all’atto primo, di atteggiamenti soverchianti del protagonista, sprezzante e depravato nella immonda lussuria, sacrilego nella celebrazione, alla sua presenza sotto la tunica di un falso frate, del suo falso funerale con la bara vuota del suo cadavere. Opera sorretta da un libretto che autonomamente cerca suoi ritmi e scansioni metriche con rime alternate, baciate, interne, che però in distonia con lo stile e la struttura musicale, rende il canto una corsa ad ostacoli piuttosto che la narrazione in musica di una storia umana e credibile. E’ il risultato infelice di un librettista che voleva essere poeta e di un musicista la cui ispirazione era assai lontana dallo spirito scapigliato del librettista.
Cantare un’opera del genere non è solo arduo ma eroico. Eppure le interpretazioni delle due protagoniste danno verità a personaggi improbabili. Straordinaria Amarilli Nizza che distaccandosi con sapienza da un contesto disumano, pone al centro della sua interpretazione la introspezione acuta della irrefutabile verità del suo pensiero di fanciulla innamorata per Edgar. E’ un pensiero quello che canta nell’aria del primo atto “senti lo strano pensier ch’io feci..”, è con un pensiero che chiude l’aria sul falso catafalco del suo uomo Oh Edgar, la tua memoria sarà il mio sol pensiero!....Lassù m’attendi Edgar”. E nel lassù la voce si innalza sulle vette del pentagramma con una soavità di canto che esprime con sfumature commoventi il dolore terreno e la certezza di ritrovarsi. Lassù.
Straordinaria e convincente anche Julia Gertseva nella interpretazione di Tigrana. Splendida presenza scenica, condita da una recitazione disinibita e accattivante nelle scene di libidine “Tu voluttà di fuoco, ardenti baci sognavi..”, ma violenta e furente di fronte al ripudio dei contadini in orazione “Tigrana di voi timor non ha”. Ben diversa la lettura della intepretazione di José Cura, cui va riconosciuta una tecnica vocale assai curata e ben adattata alla osticità del libretto, cui manca però la capacità di descrivere i complessi funambolismi imposti dal libretto, o da essi almeno tentare di estraniarsi. Convincente la direzione d’orchestra del M° Yoram David, assai apprezzabile nella esecuzione del concertato Requiem aeternam con cui si apre l’atto secondo e che in dissolvenza diviene marcia funebre. Tuttavia appare in difficoltà nel dare continuità di suoni e colori all’orchestra nel divagante ordito di una partitura senza finalità. Forse chiunque non avrebbe potuto far meglio per un’opera così scapigliata e che del movimento della Scapigliatura sanciva il fallimento. Un movimento che con l’Edgar entra nella fase preagonica per essere poi sepolto dall’avanzata del verismo e lasciare alle istanze del Decadentismo qualche relitto degno d’interesse.

martedì 14 settembre 2010

Rigoletto frantumato

Luci e ombre di un Rigoletto frantumato
E’ amaro constatare che per portare la lirica in TV, si debba ricorrere a espedienti così impudichi e di fatto respingenti. Quella intuizione che portò a trasmettere la Tosca nei luoghi e nei tempi in cui i fatti ebbero luogo, non aveva senso nella Traviata e ancor minor senso poteva averne nel Rigoletto. Provate a immaginare un genitore cui viene rapita la figlia sotto i suoi occhi bendati, il quale va a riposare e il giorno dopo comincia a cercarla. Provate a immaginare che dopo aver scoperto chi l’ha sedotta e giurando vendetta, va alla ricerca dell’uomo di spada che potrebbe vendicarlo solo dopo aver tranquillamente cenato e forse riposato. Tale frantumazione ha qualcosa di sacrilego, come sacrilego fu il folle gesto di chi colpì con un martello la Pietà di Michelangelo, frantumandone il volto.
Questa frantumazione dell’opera tuttavia non è la sola violenza fatta. Un’altra ancora più intollerabile è stata l’affidare la parte di Rigoletto, principe incontrastato del canto per baritono, alla voce di un tenore. Non solo, ma a un tenore ormai settantenne generoso e glorioso ma non più né nella forza, né nell’agilità di dare vita a un personaggio la cui scultura è nella voce come nei gesti. Così il Rigoletto di Placido Domingo non riesce a trasmettere né commozione né emozioni. Sofferto il suo lunghissimo duetto con Gilda al primo atto, in cui la fatica nel respiro e la mancanza di forze, trasmettono un languore livido e triste. Eroico forse più che patetico nella tremenda invettiva contro i cortigiani. Cantare “Cortigiani, vil razza dannata..” col furore di un leone braccato e beffato, è ben altra cosa che cantare “Miei signori, perdono, pietà…”. Eppure nel canto di Domingo l’invettiva come l’invocazione hanno entrambe la medesima impostazione vocale. Dopo l’immenso sforzo di una scena lunghissima e tenuta allo spasimo, giunge il finale della promessa della tremenda vendetta. Ormai lo sfinimento è totale si che l’acuto, l’ultimo dell’atto, che dovrebbe testimoniare la deliberata volontà di Rigoletto di aver ragione delle invocazioni al perdono della sua povera fanciulla, viene appena accennato e perde tutta la potenza del suo tragico disegno. Povero Rigoletto! Il quartetto del 3 atto è perfetto per l’equilibrio delle voci, che assieme descrivono il magnifico quadro della libidine sfrontata di un libertino nobile con una moglie per una notte, e l’innocente casto amore di una fanciulla orfana che sedotta dallo stesso crede al cuore e non vede con gli occhi. E' un quadro in cui ogni intensità e sfumatura di colori è dosata con una saggezza somma. Ebbene in tale quadro la voce tenorile di Domingo ha il medesimo insano senso dei colori scuri e tetri in un quadro soleggiato e senza ombre. C’è l’ultimo, angelico duetto con Gilda morente, con “il dio tremendo..” in cui il tremendo esige un canto che è sgomento, totale abbattimento e definitiva constatazione della sua condanna a essere difforme nel corpo e colpito negli affetti. Ma la fine dell’opera, massacrante per un cantante giovane, per un cantante anziano diventa un respiro appena più profondo e senza alcun significato. Null’altro. Così dopo la morte di Gilda il lancinante grido della Maledizione perennemente incombente, diventa un sospiro di liberazione per la fatica compiuta.
Tuttavia la messa in scena televisiva non aveva solo le ombre della frammentazione, dell’infelice scelta di due settantenni, Placido Domingo e Ruggero Raimondi (Sparafucile), ma aveva anche la luce di voci giovani, nel pieno del rigoglio scintillante e di un incanto celestiale: Julia Novikova (Gilda), Vittorio Grigolo (Duca di Mantova), Nino Surguladze, (Maddalena) e Gianfranco Montresor (Monterone). Della prestazione vocale e scenica della Novikova c’è da apprezzare tutto e perdonare tutto, anche qualche errore di fonazione, come nelle doppie dell’esordio di Tutte le feste al tempio . Bella, ricca di sfumature, di piani vellutati, commovente nell’ultima nota in gola quasi fosse già lassù in cielo vicino alla mamma.
Elogi, seppure la breve presenza in scena non consente entusiasmi, anche per Nino Surguladze, voce calda, pastosa, sensuale nel duettino col Duca e nel successivo quartetto. Eppure vien da chiedersi perché un soprano e un mezzosoprano non italiane in una produzione tutta italiana, introdotta con tutta la sontuosità e ufficialità del Presidente NAPOLITANO? E’ assai poco credibile che il panorama italiano non suggerisca artiste capaci di cantare e recitare Gilda o Maddalena, con maestria, credibilità scenica, gioventù e bellezza. Perché non farlo e dare l’opportunità di un palcoscenico immenso, e opportunità di lavoro, a giovani italiane?
Diverso e più consolante il versante maschile con Grigolo e Montresor italiani di purissimo sangue. Gianfranco Montresor in possesso di una voce possente, e di una dizione perfetta, ha saputo esprimere nella voce e nel gesto la differente aristocrazia del Conte, nobile, dignitosa, sofferente rispetto a quella libertina e lasciva del Duca. Il suo "la voce mia qual tuono" ha la potenza di un evento naturale, una potenza che si ammorbidisce nella frase "tu che d'un padre ridi al dolor", per riprendere tutta la possanza invettiva nella chiusura del "sii maledetto". L'acuto tremendo della sua voce di basso impregna di tristi presagi tutta l'atmosfera circostante, ponendo fine alla libidinosa e sguaiata festa del Duca. Quella cosmica maledizione per Rigoletto resterà per sempre la sua ossessione e la sua condanna. Elogio e ancora elogi a Montresor anche per l'intensità drammatica con cui avviandosi al carcere esprime la sofferta rassegnazione per la vanità della sua cocente maledizione.
Vittorio Grigolo dopo la trionfale Manon a Londra con Anna Netrebko e Antonio Pappano, e il successo al Petruzzelli in Bohéme ha confermato di essere in possesso di una voce seducente e carezzevole, di mezze voci soavi sostenute con abilità e sorvegliata musicalità, rigorosamente guidate verso l’aderenza al testo e alla azione scenica. Perfetto nella credibilità di un giovane nobile innamorato di una oscura fanciulla nel duetto del primo atto nella casa di Rigoletto, perfetto nel duetto con Maddalena, semplicemente magistrale nel canto del terzo atto, “breve sonno dormiam, stanco son io”. Una stanchezza recitata con un accenno a uno sbadiglio con cui chiude la frase musicale e si addormenta. Certamente il suo Duca di Mantova è ancora ben lontano dalle insuperate interpretazioni di Alfredo Kraus o di Luciano Pavarotti. Si pensi alla chiusa del duetto con Gilda nel primo atto ”vivrà immutabile l’affetto mio per te! Addio!”, e alla tremenda cabaletta “Possente amor mi chiama” del secondo atto con cui chiude il recitativo e aria “ella mi fu rapita”. Forse avrebbe potuto tentare gli acuti dei due maestri. Ma il rischio era troppo elevato. Forse!
Uno spettacolo dunque con luci e ombre, non trionfale ma ben lontano dalla dimensione trash che gli è stata impunemente attribuita. Uno spettacolo che nella sua complessa strutturazione, pone in evidenza l’immensa difficoltà di riuscire a convogliare un pubblico più entusiasta delle Velone e delle veline, che non di quella somma esplorazione dello spirito umano che è l’opera lirica.

domenica 25 luglio 2010

Torre del Lago PUCCINI


Madama Butterfly

Il miracolo di un naufragio evitato grazie alla umile grandezza di Amarilli Nizza
Il simbolismo metafisico e onirico, la trasformazione del cantante in "espressione scultorea vivente"; "il vuoto della scena come comunicazione simbolica di Butterfly con il mondo esterno", erano minacciosi nembi cumuliformi che avrebbero portato al naufragio la rappresentazione di un'opera tanto perfetta e tanto popolare, da non permettere manomissioni o interpretazioni arbitrarie e autoreferenziali. La grande regia d'opera, da Pallavicini a Visconti, da Zeffirelli e Eduardo, da Strehler a Ponnelle, ha con umiltà e rigore filologico cercato di mettere il proprio talento al servizio dell'opera, e non si è servita dell'opera per realizzare impalcature sceniche, costumi, fondali, quali fedeli pronunciamenti di autonomi e indesiderati teoremi filosofici. Sciagurata regia quella di Vivien Hewitt la quale alla verità scenica ha tolto quasi tutto, solo per assecondare la voluttà di tale osceno simbolismo tradotto in immagini dallo scenografo giapponese Kan Yasuda nella totale freddezza dell’inutile residuo dell'avanspettacolo, il grande sasso del primo atto, e dell’ ancor più stravagante e prussiana porta con colonna centrale appena sospesa sopra la terra, "a rappresentare lo spazio quasi inimmaginabile attraverso il quale lo spirito di ogni essere umano dovrà passare dopo la morte per ricongiungersi con l’universo spirituale". E' assai arduo cogliere il nesso tra Butterfly e questo filosofeggiare del rapporto tra spirito umano e universo spirituale, che la regista tenta di spiegare nelle sue Note di regia. Ancora più arduo e certamente denso di insana concupiscenza l'oltraggio alla stupenda storia di Butterfly perpetrato attraverso il minimalismo del teatro No. Ridurre la casa della fanciulla dagli occhi pieni di malia, a una passerella, esaltazione del teatro del No, spegnere le luci sulla protagonista per accendere i lumi di indefinite sacerdotesse, durante lo stupendo coro muto, è violenza suprema. E' stupro impuro, inverecondo e inorridente. Uno spazio vuoto, è vuoto seppure si voglia dare senso al vuoto. Il nulla è nulla seppure se ne voglia attribuire dignità e peso. In uno spazio vuoto non v’è vita, non v’è amore, stupore, attesa, fede, sacrificio. Eppure la signora Hewitt pretende di spiegare il vuoto della scena come comunicazione simbolica di Butterfly con il mondo esterno che la distruggerà. Quanta fantasia inutile e bugiarda. Quanta poca conoscenza dell’opera, e quanta presunzione nel voler sottomettere alle proprie simboliche visioni del teatro del NO, un’opera che invece è viva e palpitante. Viva della metamorfosi di una piccola fanciulla sottratta ai postriboli di Nagasaki, la quale rinuncia ai suoi dei e ai suoi costumi, credendo di riscattarsi verso una cielo pieno di stelle, un firmamento di amore. Metamorfosi ben diversa e antitetica al teatro NO conclamato.

C’è tuttavia una mancanza ancora più grave e più respingente nella regia e nei costumi della Butterfly 2010. Trattasi della armonica sintonia necessaria tra direzione d’orchestra e direzione degli interpreti. Appare respingente e irritante la totale diversità di vedute e di lettura di un’opera che non ammette ambiguità tra impostazione registica e impostazione orchestrale. E’ avvenuto invece che mentre l’orchestra fedele alla interpretazione della signora Eve Queler, privilegiava la riproduzione di una atmosfera tutta orientale, nei ritmi, nell’uso degli ottoni occlusi, del bong, la regia privilegiava costumi occidentali stile ‘800, assai lontani dalle atmosfere orientali create dall'orchestra e ancor più lontani dalla verità poetica della fanciulla di Nagasaki.
In una navicella destinata a sicuro naufragio causa una regia così caparbiamente ostentata, c’è un albero che riesce a tenere la tempesta e salvare lo spettacolo consegnando agli spettatori le emozioni attese e meritate. Tale albero ha un nome: Amarilli Nizza, interprete forse unica di Butterfly nell’attuale panorama delle voci pucciniane. La sua interpretazione pur menomata da una regia distruttiva che molto le ha sottratto della mimica scenica, vedasi il coro muto e il successivo interludio, ha raggiunto livelli difficilmente eguagliabili per la bellezza della voce, della adesione rigorosa del canto al testo, per la infinite modulazioni con cui ogni singola frase musicale, ogni singola parola, ogni singola vocale viene pronunciata con una intensità comunicativa coinvolgente. Basti citare il suo il canto al suo ingresso, “io sono venuta al richiamo d’amor, ….ove s’accoglie il bene di chi vive e di chi muor”, o lo stupore con cui canta nella sua notte d’amore “dolce notte quante stelle, non le vidi mai si belle!”. Un quante in cui la voce si dilata verso l’infinito di un mondo nuovo che raggiunge le stelle. Un mondo sognato e finalmente raggiunto nella breve illusione di un riscatto dalla povertà, dalla umiliazione di vivere nei postriboli e fare la ghescia per sostentamento. Un canto soave per i velluti della voce, che passa con agilità e incanto dalle invettive contro il console che le suggerisce di sposare il ricco Yamadori, alla delicatezza del duetto con Suzuki nel preparare e prepararsi al ritorno di Pinkerton fino al sofferto dolorosissimo addio al suo piccolo Iddio,
perché non gli rimorda ai dì maturi il materno abbandono.
Di fronte a tale livello di canto e di interpretazione, tutti gli altri personaggi Massimiliano Pisapia (Pinkerton), Renata Lamanda (Suzuki) Fabio Capitanucci (Sharpless) appaiono generosi, ma lontanissimi dalla perfezione interpretativa della Nizza.
A noi spettatori, vanno riconosciuti il privilegio di aver potuto apprezzare l'umiltà cui la signora Nizza si è sottoposta alle stravaganze registiche, ascoltare il suo canto, piangere delle sue lacrime, e la gioia di poterne ancora raccontare. Solo a personalità come lei è dato di poter tener viva l’opera lirica. Saremmo tentati di dire che non sono i decreti e le risorse che fanno la bellezza di una rappresentazione, ma sono le bellezze delle voci e la rinuncia a costose stravaganze registiche che generano risorse e demotivano i decreti.
Manlio Mirabile
fm.mirabile@libero.it

giovedì 1 luglio 2010

Ultima scellerata avventura libresca di un “secredente” storico

NEL SEGNO DEL CAVALIERE

di Bruno Vespa

Fare del giornalismo parlato, del giornalismo scritto e poi voler essere scrittori di storia è una ambizione troppo grande per un piccolo personaggio quale è Vespa, lontano dal sommo Montanelli che si astenne a ragione dal giornalismo parlato. Vespa è del tutto privo di una lingua italiana che possa affascinare, attrarre, interessare, descrivere. Povero nell'eloquio, è ancor più povero di idee. Le uniche di cui dispone sono quelle trasmesse dai diversi interlocutori e messe assieme senza nesso e senza logica. Provate a capire dal suo racconto perché fallì la Bicamerale, o perché Berlusconi non vinse le elezioni nel 2006. Provate a capire il lodo Mondadori, o il lodo Alfano, il processo Mills o le diatribe con Fini. Sarete delusi. Troverete (per ca. 800 volte, 2-3 volte a pag.) un ingorgo di "mi disse, mi raccontò, mi confermò, mi.....ecc.". Un ingorgo di citazioni, di parole, di date, di ore, di personaggi, di mestieri dei personaggi, di mestieri dell'epoca dei fatti e di mestieri successivi. Riferimenti del tutto irrilevanti ai fini del racconto. Raccolta indifferenziata di dati e date, episodi e pranzi, incontri segreti e scontri pubblici, che non spiegano nulla di quella che con poca credibilità e molta presunzione chiama ...una storia italiana.
Basterebbe trascrivere i virgolettati dei racconti fatti dagli altri, e tutti sarebbero autori del libro di Vespa. Una paccottiglia ambiziosa e raggelante, ultima inutile autopresentazione di una inutile collana di testi offensivi della lingua italiana e della intelligenza dei lettori. Forse un solo merito si può riconoscere a Vespa e una sola gratitudine gli si deve: aver provato infallibilmente come non si debba scrivere un libro in italiano. Tanto meno se di storia.

Infelice colui che per casualità o per improvvida scelta vivrà l'infausta avventura di leggere un testo così sciagurato, che umilia il lettore, rende la Storia di tre lustri e di un uomo, un labirinto occluso colmo di tele e ragnatele senza significato, e fa della lingua italiana uno scempio così totale e devastante.

martedì 25 maggio 2010

Teatro dell'Opera di Roma


Altissimo Magistero di canto e recitazione
AMARILLI NIZZA
in
Madama Butterfly
Parrebbe impossibile una interpretazione di Butterfly così coinvolgente e commovente come quella donata dal soprano Amarilli Nizza all'Opera di Roma. Le interpretazioni della bimba dello squallido quartiere di Omara Nagasaki, sono così tante e così diversamente concepite che sarebbe assai arduo poter inventare stilemi fuori dai solchi di letture consolidate e convincenti. Eppure Amarilli Nizza vi riesce con una tavolozza di colori e di modulazioni della voce, con una ricchezza di fiati sospesi, di mezze voci, di vocali ora aperte ora chiuse, che sottolineano le armonie del testo e della musica, sì da offrire una lezione magistrale di canto e di recitazione. Una lezione che imponendo di ignorare ogni altro aspetto pur rilevante dello spettacolo, occorre registrare nell'ambizioso sforzo di consegnare al Lettore soltanto alcune delle magie irradiate dalla protagonista in ogni singola frase musicale, in ogni singolo atto, in ogni singola parola. Magie che illuminano il personaggio di Butterfly in modo così abbagliante che tutto quanto sarà possibile narrare non basterà che a dir poco.
Una luce che si accende già all'apparire della piccola Cio-Cio-San, quando emersa orfana e povera dai postriboli di Nagasaki, davanti al luogotenente della marina americana ricorda con rassegnazione intensa e amara Eppure conobbi la ricchezza, ma....abbiam fatto la ghescia per sostentarci. Una frase cantata con un singhiozzo che alla tristezza del ricordo aggiunge l'ansia del riscatto. Un riscatto annunciato dalla forza nostalgica di un futuro possibile, leggibile nel lirico esordio Sono la fanciulla più lieta del Giappone...d'amor venni alle soglie, nel quale il solo canto di lieta, ampio, esteso, dà una dimensione tangibile alla gioia della speranza di una redenzione colla nuova vita di sposa di un americano. Una redenzione per la quale rinuncia alla religione degli avi e con umiltà si inchina al Dio del signor Pinkerton. Con gesti sommessi e quasi nascosti, con voce tremolante di pietà annuncia che nella stessa chiesetta in ginocchio, con voi pregherò lo stesso Dio. Una scena che sollecita la riflessione contemplativa su una fanciulla che alle soglie dell'amore fa per amore una rinuncia sofferta e per la quale sarà rinnegata. Ma la gioia del matrimonio liberatore, sovrasta il pianto per il ripudio. Sulla soglia della stanza degli sposi canta mestamente, sottovoce, gli occhi a terra, Rinnegata, ma dopo una pausa di riflessione infinita, gli occhi si elevano in alto verso il firmamento, la voce si fa piena e annuncia la certezza di essere …..felice, con entrambe le “e” sostenute a lungo, messaggio amoroso di un convincimento ormai profondo. La poesia dell'amore si fa più esplicita ed eloquente e per la bimba dagli occhi pieni di malia, anche profetica. Lei conosce, le conosce, le parole che appagano gli ardenti desir, ma dirle non vuole per tema d'averne a morir! Una frase tesa, testimonianza di una verità colta nella sua tragica profezia, e lunghissima quasi a spingere verso il mai il suo avverarsi.
Allontanata la paura ha inizio la notte della seduzione e del matrimonio. Nell'attacco Adesso voi siete per me l'occhio del firmamento, nella notte serena, dolce e piena di stelle, c'è l'assoluto elevarsi dello spirito, c'è la contemplazione stupita e quasi religiosa delle meraviglie del creato. Dolce notte è pronunziata con la “o” di dolce a fior di labbra, quasi ad assaporarne tutti i profumi, mentre la “a” del successivo Quante stelle è aperta e lunga oltre misura, rivelazione della oggettiva smisurata estensione dell'universo e dell'incanto tutto proprio di fronte a un cielo mai veduto così pieno di stelle, vibrante di faville, piena di occhi fissi, attenti. E nella ripresa di Ah! Quanti occhi fissi, attenti! la esclamazione Ah! è cantata con una sola nota e il respiro trattenuto a lungo, immobile a fermare il tempo nell'incanto estatico del cielo ridente d'amore. Una interpretazione solenne, intima, soggiogante che nell'acuto conclusivo sulla frase Tutto estatico d'amor ride il ciel diventa inflessibile richiamo al pianto di commozione. Raramente è dato di ascoltare colori e modulazioni della voce che esprimono con intatta intensità cinguettio di fanciulla e sensualità femminina, leggerezza e gravità, pudicizia ed erotismo, fervore dell'animo e grazia sospesa.
Le struggenti promesse si consumano nel respiro di una notte. Poi la partenza e l'oblio del marinaio americano, rigettano Butterfly e il suo bimbo in una povertà sconsolata, dalla quale possono liberarla non le preghiere di Suzuki agli Dei Giapponesi, pigri e obesi, ma l'invocazione al Dio americano che risponde a chi l'implori. Butterfly con sicura fede lo attende. Tornerà, tornerà. Tornerà nonostante la paura di Suzuki. In un rapimento onirico Butterly vede l'apparire di una nave bianca dall'estremo confin del mare. Vede un picciol punto salire per la collina. E' lui, la chiamerà, ma lei sarà nascosta, un po' per celia, e un po' per non morire al primo incontro. Sublime la Amarilli Nizza nel distinguere un po' per celia, intimo, sommesso, sussurrato, quasi nascondino, dall'un po' per non morire, esplosione di gioia e di certezza, a voce che pian piano diviene piena e forte. E' lo slancio totale della totalità dell'essere donna innamorata e madre, sola con la sua speranza e non più stretta a Suzuki, ma da lei lontana, in un allontanamento che è il rifiuto della sua religione e della sua paura. Tienti la tua paura, io con sicura fede l'aspetto. L'aspetto: una nota sola, acuta, perentoria, senza tentennamenti, sfida alla perfidia del mondo.
Una attesa che si fa ansia quando il console Sharpless le legge la lettera nella quale Pinkerton domanda se mi vuol bene ancora, se mi aspetta. Al console risponde semplicemente Oh le dolci parole! Si coglie nella dizione della Nizza tutta la soavità gioiosa, rassicurante, sostegno a una speranza non sopita, tutto l'amore incontaminato che ancora domina il cuore della fanciulla. Un sentimento intenso e roccioso, messo alla dura prova dalla domanda del console, che fareste s'ei non dovesse ritornar più mai? cui risponde con due sole alternative: tornare a divertir la gente col cantar oppur, meglio, morire. Alla insistenza del console di accettare la proposta di matrimonio del ricco pretendente, risponde sorpresa e piangendo con un Voi, voi, signor, mi dite questo? Voi? Il terzo Voi è gridato come rimprovero al console, una riprovazione di una brutalità indegna di un uomo degli Stati Uniti, un rigetto disgustato di una oscenità che le risuona come colpo mortale. Il furore del rimprovero si addolcisce tuttavia nel dolore del successivo Oh, mi fate tanto male, tanto male, tanto, tanto! Una ripetizione per tre volte di tanto, con il terzo tanto cantato mestamente, a fior di labbra come episodio nuovo, trasmigrazione della frase rivolta al console, alla riflessione della scelta ineluttabile che dovrà fare e che toccherà lei e sopratutto il suo bimbo. Ma tornare a un mestier che al disonor porta! ...no no! Questo mai! Tragico e solenne rifiuto. Il timbro di voce si eleva e le fantasie traboccanti di una adolescente innamorata, si tramutano nel giuramento di fedeltà di una donna sentimentalmente forte, fedele all'onore e alla parola. E il nome del suo bimbo che ora è Dolore, diverrà gioia, Gioia, Gioia, mi chiamerò, se il babbo tornerà. Nella pronuncia dei nomi la voce cambia dal cupo suono delle “o” di dolore alla dolcezza avvincente delle tre vocali di gioia, gioia, ripetute per pregustarne l'intensità e trasmettere il calore della ritrovata paternità. Una paternità che, se messa in dubbio dalla voracità blasfema del pettegolezzo, scatena l'ira selvaggia della frase Ah! Tu menti, menti! Menti menti! Ah! Menti rivolta con veemenza disumana a Goro corifeo di tanta iniqua malvagità. Ma il furore si placa accanto al suo bimbo stretto al seno, in una sequenza di espressioni mia pena e mio conforto, mio piccolo amor che nella loro differente verità impongono diversi registri vocali, tutti quanti impiegati dalla Nizza con voce vellutata di struggente bellezza, salubre volo verso i cieli dell'altissima poesia. L'annuncio dell'arrivo di una nave da guerra col vessillo americano delle stelle muta l'atmosfera di sconforto in una gioia irrefrenabile. Un tremolio delle mani e singhiozzi di gioia esprimono tutta l'ansia tremolante dell'attesa e del trionfo del suo amore, della sua fedeltà. Del suo credo. E annunciano la prima metamorfosi della piccola Butterfly: dal dubbio del possibile ritorno alla certezza che è tornato. E' lui. E per lui tutto dovrà essere respiro di primavera, il giardino, il bimbo, lei stessa. Lei stessa come era stata nel primo giorno. Vo' che mi veda indosso il vel del primo dì. E primo è cantato con una nota che nella sua lunghezza pare voler cancellare dalla mente gli affanni di tre anni di lontananza e riassaporare le fragranze della prima notte. Così addobbata, si predispone all'attesa, nel silenzio. Un coro muto, eco di una voce, la voce fossile della radiazione originaria, la voce di Dio che non è né vento, né rumore, ma una brezza leggera avvolge la protagonista nel silenzio e nell'attesa. E lei, Amarilli Nizza sola sulla scena insegue le note eteree con movenze sceniche, con un dilatare delle braccia, con un incedere lento ma solenne verso il proscenio, che danno sostanza visiva all'intima, insopprimibile illusione della speranza. Una speranza mai abbandonata ma dolente. Dormi amor mio...tu sei con Dio, ed io col mio dolor, è il canto straziante con cui accompagna il suo bimbo al suo riposo e che si chiude sullo spegnersi della parola dolor, quasi candela che via via si consuma e oscura. In tale finale di scena la potenza espressiva della Nizza raggiunge i vertici di una meditazione sulla dimensione cosmica del dolore, la sua inesplorabile ragione, la sua forza devastante che indiscriminatamente colpisce piccoli e i grandi, poveri e non poveri. Lo spegnersi della sua voce su un acuto dell'ultima “o” di dolore ha tutta la eloquenza della ineluttabile resa, della vanità della speranza, della irrilevanza della sua bellezza che pure con sapienza scenica aveva accarezzato durante l'interludio precedente l'arrivo di Pinkerton.
La tragedia è ormai imminente. La scoperta che Pinkerton è tornato ma con la sua sposa americana, è il colpo mortale che sancisce la coscienza che Tutto è morto per me! Tutto è finito! E' l'ultima sollecitazione alla ricerca della dignità perduta nella Morte: con onor muore chi non può serbar vita con onore. Una riflessione dolorosa ma solenne che raggiunge i vertici della tragedia nel rifiuto della vita quale fonte di disonore e di dolore. Disonore e dolore che tuttavia devono essere ignorati del suo bimbo, perché ai dì maturi non gli rimorda il materno abbandono. In tale ultimo canto al fine di abbellire ancor più il tremendo istante, di sottrarsi ancor più all'opprimente scoperta, la Nizza mette a servigio della necessità drammatica e psicologica l'ornato virtuoso, facendone un ingrediente indispensabile che dà spessore e umanizza ulteriormente gli estremi palpiti del personaggio, come se la frase musicale già scritta non bastasse più a far defluire le forze esplosive celate nell'animo nel momento del materno abbandono.....guarda ben! Amore addio! Addio! piccolo amor!.
Un magistero di canto e di recitazione, dunque. Amarilli Nizza ha saputo riprodurre e articolare alla perfezione testo musicale e parlato, tanto da ridurli entrambi alla funzione specifica di norme per l'esecuzione, creando il miracolo della trasfigurazione della fantasia musicale e della poetica del testo in una pura, antropomorfa figura umana. Una figura artistica, astratta, generata da una fantasia musicale col suo canto diventa figura tangibile, vibrante. Umana. Col suo canto la metamorfosi è perfetta.

mercoledì 21 aprile 2010

BARI – Teatro PETRUZZELLI

La Cenerentola
di
Gioacchino Rossini

L’incanto di un messaggio quasi religioso

Dopo il furore di odio e di sangue delle devastanti guerre napoleoniche che avevano privato l’Italia della sua gioventù migliore, dopo quell’infausto tentativo di restaurazione degli antichi sistemi politici e degli antichi privilegi spazzati via dalla Rivoluzione Francese, dominava nello spirito degli uomini più illuminati il bisogno di una rigenerazione spirituale, di una rappacificazione e di un perdono condiviso. Anche Rossini, che alla politica si sentiva e fu estraneo, per quel prodigio che accarezza sempre i geni sommi, nel 1817 passata la bufera napoleonica e concluso il Congresso di Vienna sentì di dover dare voce a tale bisogno. Di strumenti ne aveva uno solo ma traboccante: la musica. E la utilizzò. La utilizzò tuttavia con i canoni che gli erano propri, quei canoni che gli permettevano di cogliere anche nella drammaticità delle situazioni e degli accadimenti quotidiani aspetti comici e paradossali. Quegli aspetti che filtrati con l’intelligenza dell’ironia, alla farsa conferiscono la dignità del sorriso amaro e riflessivo, e la elevano all’altezza dell’apologo morale, quasi messaggio religioso. Per questo nella sua Cenerentola si fondono in un'unità armoniosa e si integrano in un equilibrio mirabile e perfetto, gli aspetti buffi con quelli onirici, quelli esilaranti con quelli poetici, quelli farseschi con quelli etici. L’elemento unificante è la sua musica mai greve, mai banale, e che anche là dove il testo perde di pregnanza e fascino, resta incontaminata nel suo ritmo continuo e travolgente, nella sua superiore armonia affascinante e coinvolgente, nella sua eleganza descrittiva.

Don Magnifico, barone di Montefiascone, è la nobiltà decaduta, annientata da debiti e ipoteche fino agli stivali a tromba, la quale tuttavia aspira alla sua restaurazione attraverso il sodalizio principesco di una delle sue figlie. E nel ratto onirico della sua cecità mentale sogna dozzine di nipoti regali, un re piccolo di qua/ un re bambolo di là/ e la gloria mia sarà, immagina al suo palazzo crollato e in agonia l’andirivieni di un supplichevole drappello di importuni seccatori. Le sue figlie un misto di insolenza, di capriccio e vanità, si insultano e si offendono, insultano e offendono Cenerentola, sorellastra Donna sciocca ! alma di fango, assetate entrambe dalla lurida voluttà di salire al trono e sorde a ogni richiesta di carità. Alla cecità di Don Magnifico e alla sordità delle sue viscere cui si raccomanda, risponde con ingenuità luminosa e veggente Angelina. La Cenerentola. La quale dal nulla della sua povertà e semplicità coglie che il suo fasto è la virtù, che la ricchezza è l’amore, e ad Alidoro che fintamente mendica un tantin di carità, offre un po’ di colazione. Alidoro, scacciato quale tanfo dalle sorellastre Tisbe e Clorinda con un furente Accattone, via di qua, diventa la materializzazione del premio eterno promesso alla bontà. La sua Aria “Là del cielo nell’arcano profondo/del poter sull’altissimo Trono/veglia un Nume signore del mondo/….Tutto sa, tutto vede,/e non lascia/nell’ambascia/perir la bontà” si eleva alle sommità di un sermone che sollecita la fede e motiva la speranza. Ieratico, profetico, sontuoso nella possanza della voce di basso, Alidoro diventa l’epicentro che sconvolge la vita di Angelina, diventa l’Angelo consolatore che la sottrae alla vergogna della cenere e la conduce sul trono del principe. Alidoro, personaggio in apparenza secondario è nel contempo il messaggero più eloquente di una Forza superiore, irriconoscibile ma presente, e lo strumento capace di cangiare come un baleno rapido la sorte di chi lo accoglie pur nelle vesti di un povero mendico, del quale non cerca la identità ma ne riconosce la condizione. Nella sua constatazione che il nembo è terminato e il destino s’è cangiato e nella promessa che l’innocenza brillerà, v’è tutta l’abbagliante bellezza di un messaggio di speranza contro le iniquità del mondo immondo. Angelina è la testimonianza di una umanità che nata all’affanno e al pianto, condannata a vivere nella cenere immonda, avverte una voce di salvezza che la eleva sul trono non per vendicarsi ma per perdonare: E sarà mia vendetta /il lor perdono. Una voce che è rivelazione, che lei conserva segretamente e che le consente di assistere alle insolenze delle sorellastre e alla arroganza fatua del patrigno con un distacco sereno e consolante. Si dipanano allora davanti a lei fatti e inganni, attese e improbabili sogni, travestimenti, inganni, intrecci avviluppati di fatti che lei guarda ormai come attinenti a un mondo non più suo e dal quale si sente ormai esule. In tale mondo si muovono quasi figuranti i personaggi del Principe Ramiro, innamorato di Angelina e da lei riamato e Dandini, suo servitore travestito. Personaggi poco delineati, che solo a contatto con Angelina raggiungono una consistenza e una verità plausibili. Se infatti l’aria del secondo atto di Ramiro, “Sì, ritrovarla io giuro”, è affatto convenzionale, molto più eloquente nella caratterizzazione del personaggio è il bellissimo recitativo “Tutto è deserto”, con il quale il Principe si presenta al palazzo di Don Magnifico preceduto da un balbettare dell’orchestra a sottolineare il suo spirito in bilico fra stupore e incantamento. È il punto in cui l’opera maggiormente si dissolve nell’atmosfera della fiaba, e che rende il seguente duetto con Cenerentola il più bel duetto d’amore che Rossini abbia mai composto. Sbalorditiva, in quel canto, è la capacità del Maestro di tradurre in poche battute e con una fulminante pittura musicale tutti i trasalimenti e il turbamento di due giovani innamorati a prima vista: “già più me non trovo in me/che innocenza, che candore!”.
A Dandini Rossini affida arie ed eloqui giocosi che riportano l’opera al divertimento fiabesco e raffinato, ma che non intaccano l’intima e stupefatta metamorfosi di Angelina. La quale da figura pateticamente sognante nella sua iniziale malinconica canzone “Una volta c’era un re”, levita progressivamente verso la pazzia di gioia che esprime nello sfavillante rondò finale “ah fu un lampo, /un sogno, un gioco/ il mio lungo palpitar”. Personaggi dunque non marginali nello sciogliersi del nodo avviluppato, ma dalle psicologie assai superficiali perché solo pretesto alla geniale narrazione del trionfo della bontà.
Opera somma e luminosa leggibile da angolazioni diverse e tutte legittime, tanto copiosa è la partitura e ricchissima la tavolozza musicale.
L’allestimento al Teatro Petruzzelli di Daniele Abbado nella ambientazione e nei costumi senza eccessive connotazioni di tempo predilige la lettura di un’opera immortale e ancora attuale, dominata dall’apparire e scomparire di scale testimonianza visiva della discesa o ascesi di rango dei vari personaggi, del loro essere e non essere attraverso l’apparire e lo scomparire di passerelle e varchi. Una lettura legittima, ma una messa in scena non esaltante che anzi mortifica l’azione scenica dei cantanti costretti a equilibrismi che distolgono dalla concentrazione.
Cantanti affiatati e bravi, seppure in misura differente, tra i quali meritano una citazione particolare le due sorellastre Alessandra Volpe ed Eleonora Cilli e la giovanissima Josè Maria Lo Monaco, Angelina.
Alessandra Volpe (Tisbe), dotata di splendida presenza scenica e di una voce possente, assieme a Eleonora Cilli (Clorinda) dalla voce pastosa e dalla dizione limpida, descrivono in modo perfetto due sorellastre insolenti, vivaci, ciarliere e garrule. Con un ventaglio sapido di azioni e movenze sceniche conferiscono alle sorellastre una comicità non sfrenata e da avanspettacolo, ma una comicità che sollecita con il sorriso anche la commiserazione.
Di José Maria Lo Monaco sorprende la purezza degli attacchi, la sonorità argentina degli acuti estremi, l’agilità perlacea, e sopratutto l’estensione dei mezzi vocali nel passare senza ripresa del respiro dai sotterranei sonori alle vette delle noti acute. Tanta dovizia di vocalità assieme alle straordinarie qualità di interprete e di attrice, apportano un soffio nuovo alle atmosfere spesso gravi e accademiche del teatro d’opera. La totale identificazione del canto alla parola e della parola alle intime modulazioni, alle metamorfosi del personaggio, ha il respiro di un magistero che saprà relegare quali residui della paccottiglia i paradigmi del bel canto per ridare dignità al canto attraverso l’arte contestuale e inscindibile della interpretazione scenica. Le esemplificazioni possibili sono tante. Dalla canzone melanconica del “Una volta c’era un Re..” cantata in modo sommesso e tutto intimo, alla gioia estatica con cui scopre in sé la dolcezza del sorriso di Ramiro che “scende all’alma e fa sperar”, alla triste constatazione del “Io chi sono? Eh! non lo so”, frase cantata con un fiato sospeso e tenuto a lungo, quasi riflessione esistenziale sul suo e sul destino delle tante fanciulle figlie di madri vedove.
Il suo capolavoro resta comunque il tocco delicato e commovente impresso al recitativo e al rondò finali. Di straordinaria raffinatezza stilistica la dizione “E sarà la mia vendetta il lor perdono” nel quale dopo il tono imperioso e quasi furente nella dizione vendetta, la voce si addolcisce sulla pronunzia de il lor perdono. Il rondò “Nacqui all’affanno e al pianto” poi è reso un’oasi di magia sonora arricchito da ghirlande di fioriture a fior di labbra di innegabile, esaltante suggestione. Una prova che testimonia la classe di un soprano che saggiamente coniuga la maestria di uno stile di canto impeccabile, con la naturalezza di una recitazione fedele alla personalità della protagonista.
Non da ultimo un riconoscimento al Maestro Evelino Pidò che ha saputo dosare il ruolo dell’orchestra in modo sapiente e tale da renderla volta a volta protagonista assoluta assorbendo nella tavolozza dei colori orchestrali anche le voci dei cantanti, come nel quintetto “Nel volto estatico di questo e quello” e nel sestetto “Questo è un nodo avviluppato” a volta totale sostegno del canto come nella lunghissima e vertiginosa aria di Don Magnifico “Sia qualunque delle figlie….” fino alla felicissima intuizione di assecondare del tutto l’interprete nel rondò finale, col quale lo svettare di Cenerentola sulla orchestra testimonia il trionfo dello spirito di bontà sulla magia stessa della musica.
Si chiude così La Cenerentola di Rossini, opera di somma sapienza che in un mondo dominato ancora da odi e vendette, dalla furia cieca del terrorismo e della follia omicida, sollecita la speranza in un Nume che tra la cenere, il pianto e l’affanno, tutto sa, tutto vede, e pur nell’angoscia non lascia perire la bontà. Messaggio altissimo, e se non evangelico, forse almeno religioso.
Manlio Mirabile

venerdì 26 febbraio 2010

TEATRO GHIONE

La Bisbetica Domata
Festoso e fastoso inno all’Amore

Scintillante messa in scena de La Bisbetica Domata, tutta colori, costumi sgargianti, luci calde e sensuali, azioni sceniche rutilanti, danze d’epoca, recitazione accattivante ed efficacemente descrittiva, stormo di campane, rumori di scena che pennellano lo stupendo mosaico, preludi o interludi di musiche raffinatissime con archi e strumenti a plettro. Uno spettacolo che nella successione rapida delle azioni sceniche, nei travestimenti, nei cambi d’abito e di scena, nella varietà delle figure mimate quale il galoppo degli sposi dopo il banchetto nuziale, nelle riprese musicali di intensa poesia derivate dalla celebre marcetta delle Nozze di Figaro o nelle riprese pittoriche, il bacio finale degli sposi sullo sfondo e il Bacio di Hayez, diventa un turbine incessante che dal palcoscenico migra verso la platea si che lo spettatore è come purificato da una lavacro ristoratore, e sottratto agli affanni è consegnato alla soave leggerezza di un incanto inatteso.
Questa è la Bisbetica, festoso e fastoso inno all’Amore, che il Teatro Ghione ha saputo offrire al pubblico insolitamente partecipativo con risate di cuore e diffuse, applausi a scena aperta ripetuti e convinti, esplosione di entusiasmi alla fine. Spettacolo di grande levatura e godibilissimo, che sarebbe insano perdere.

Il merito va riconosciuto a tutta la troupe di attori e a tutte le maestranza del teatro. Ma va primariamente ascritto alla regia di Caterina Costantini, la quale ha dato prova di saper condurre con mano ferma una compagnia di attori di diverso spessore e percorso professionale. La sua regia è riuscita a dare a ciascuno il suo ruolo e a ogni ruolo la giusta ponderazione nella complessa vicenda della Bisbetica, elevando Caterina e Petruccio, i due protagonisti, sulla pedana di tutti gli altri personaggi che vivono di loro e da loro sono ispirati. Il padre di Caterina, Battista, e la sorella, Bianca, i pretendenti e spasimanti di Bianca con relativi servitori e i servitori di Petruccio, sono solo molecole nell’universo maestoso e solenne dei due protagonisti che da essi e dalle loro descrizioni ricevono radiazioni di luce che illuminano le colorazioni cangianti del loro essere e del loro divenire. Una regia di alta levatura, merito di pochi e non da poco. Tuttavia nell’estrosità della vicenda già ricca di personaggi e situazioni grottesche, Costantini aggiunge contaminazioni da avanspettacolo cui è difficile aderire. Se Petruccio giunge alle nozze con Caterina in abiti logori, bizzarro monumento e rappezzato arnese, è difficile cogliere il significato della scelta di aggiungere agli abiti che disonorano il suo rango, anche uno stato di ebbrezza non sazia che lo spinge a bere dal calice dell’altare e sull’altare addormentarsi russando. Una concessione di ilarità di grande presa ma che impallidisce la figura di Petruccio che è sì un diavolo, un vero diavolo, un bruto palafreniere, ma non certo un ubriacone. Difficile da capire ancora come nella cerimonia nuziale non si sia ripreso il racconto che Shakespeare affida a Gremio, uno dei pretendenti di Bianca, con le bestemmie e gli schiaffi e il capitombolo del prete nel raccogliere il messale caduto, e si sia privilegiato una parodia di scena nuziale, dominata dalla fatuità del prete, dalla sua voce stridula e dalle sue movenze da omosessuale. Eppure il gioioso stormo delle campane che accompagna la cerimonia, e la croce bianca che si disegna sul fondo sembrerebbero riprendere la sacralità di una cerimonia e un di un vincolo, dissacrati non dalla fatuità del prete o dalla ebbrezza di Petruccio, ma dal suo comportamento blasfemo.
Difficile appare anche condividere la scelta di affidare a una attrice di colore il personaggio di Bianca. Le note della regia spiegano che Bianca è in realtà un animo oscuro, giusto contraltare alla fragilità fisica della sorella. Eppure Bianca, la dolce bellezza, personaggio assai marginale nella narrazione, è tutta libri e strumenti musicali e in quel poco tempo che è in scena si sottomette umilmente alla volontà al padre, timidamente implora la sorella di non usare verso di lei i modi che s’usano per una serva o una schiava, e ingenuamente si chiede se esista una scuola dove s’insegna a domar la gente. Frasi e atteggiamenti che non rivelano nulla di oscuro ma un candore ingenuo e inconsapevole, pallido di un pallore stridente col fuoco vulcanico di Caterina.
A tali osservazioni che riguardano la interpretazione scenica della Bisbetica, occorre aggiungere una osservazione che attiene alla interpretazione culturale della commedia.

La Bisbetica non è né solo spensieratezza, né solo esaltazione del grottesco, né opera buffa. Pur nel sapiente connubio con la leggerezza e la spensieratezza essa è la riflessione succhiata dal miele della dolce filosofia su alcuni degli archetipi caratteristici della condizione umana: il rapporto uomo-donna e il rapporto di ciascuno con la Storia. Il rapporto di ciascuno con la Storia e le manipolazioni delle sue verità, la Storia e le violenze cui essa lo sottopone in un continuo mutar di forme: la fame, il sonno, l’incuria, l’apparente ripudio della ricchezza. Forme tutte ipocritamente finalizzate al bene. Una riflessione sul rapporto uomo-donna nelle innumerevoli varianti col quale esso si manifesta nell’incessante farsi delle culture e delle coscienze. Un rapporto che il tempo ha trasfigurato, grazie a un florilegio ininterrotto di metamorfosi e mutazioni di costumi quasi sorprendenti trasposizioni metateatrali. Un rapporto inesorabilmente immerso nel portentoso dinamismo nel labirinto della vita, nel quale ognuno lasciandosi alle spalle la palude per tuffarsi nelle profondità dell’oceano apprende il proprio ruolo e cerca di recitarlo con convinzione ed efficacia. Un ruolo dapprima respinto con tempesta di clamori insopportabili, con caparbietà e isterismi, ma infine accettato per vivere in armonia con l’esistenza e potersi abbandonare con passione e pienezza alle pulsioni dello spirito. Accettazione che dopo lo sforzo beffardo di conservare la propria indipendenza di intelletto e di azione, diventa ineluttabile e spesso devastante se impone la rinuncia parziale alla propria personalità, come nel finale della Bisbetica.
In tale luce la bisbetica Caterina, lungi dall’essere l’erinni contemporanea, scontrosa e testarda, è la semplificazione della forza indomita delle donne di resistere alle violenze e prepotenze di cui sono vittime. Figura infinitamente sola nel duello sfrontato e audace con chi vuole sottometterla. Infinitamente umano il suo tentativo di reagire col carattere scorbutico, caparbio e terribilmente linguacciuto all’avidità di ricchezza e potere di Petruccio, gentiluomo girovago, uomo del destino, educatore determinato, repressore di ogni originalità e libertà, giustiziere di qualunque diversità. Ma la scontrosità di Caterina arma originale di difesa contro tanta protervia, non è pagante nei confronti della ineluttabilità della esistenza. Ineluttabilità elevata al parossismo della predestinazione, che la sorella Bianca percepisce distintamente pur se forse inconsapevolmente. La Bisbetica è dunque un viaggio disperato e un po' grottesco nella sostanza di tale predestinazione esemplificata nell’eterno conflitto uomo-donna. Nel suo viaggio in giro per vedere un po’ di mondo, lungi dal tetto natio, Petruccio incontra Caterina, predestinata quale sua sposa e sua preda da addomesticare. Se Caterina è la fanciulla bisbetica e capricciosa, ma vittima predestinata, Petruccio è l’avido gentiluomo che utilizza il proprio potere come terapia. E nel loro intreccio dal tono comico e farsesco, nei loro furibondi contrasti verbali, nel loro rintuzzarsi serrato di battute, si materializza la potenza di tale conflitto, esemplificazione dell’ineludibile conflitto tra le diversità di sesso, di ricchezza, di intelligenza. Un conflitto cui il ricco gioco dei travestimenti conferisce rifrangenze ottiche e trasforma in finzione e illusioni soggettive. La finzione: sudario che avvolge tutti e a tutti sottraendo la propria identità li relega nel sottile diaframma che distingue l’essere dall’apparire, la verità dalla falsità, la pazzia consapevole dalla furbizia inconsapevole; e le illusioni soggettive di ognuno di perseguire il proprio obiettivo credendo di possederne gli strumenti idonei: chi il potere, chi il denaro, chi l'inganno, chi l'umorismo.
Un conflitto dunque tra due giganti della letteratura mondiale, che la lettura della Costantini pare ridurre solo a un diverbio amoroso, a un sottile gioco della seduzione, allegro e grottesco.
Se la regia appare non condivisibile in alcune scelte, nulla si può eccepire alla quasi totalità degli interpreti. Se si esclude la giovane Fatima Ali, Bianca, del tutto fuori dal personaggio nella lingua, nella dizione, nella recitazione, a tutti gli altri va riconosciuto un impegno, una fluidità nelle migrazioni da un personaggio a un altro, un dominio della voce ora chioccia, ora greve ora irridente, meritevoli di ogni lode. Sopra tutti svetta inconfondibile la perfetta interpretazione di Selene Gandini, Caterina.
Selene Gandini è giovane ma non è una giovane promessa: è il distillato di un’alta scuola di recitazione ormai capace di proporre nuovi modelli interpretativi. La sua interpretazione della capricciosa Caterina è una interpretazione da manuale. Lungi dalle auliche, pavoneggianti letture di attrici ben più affermate, lungi dal conferire al personaggio una connotazione puramente simbolica e intellettuale, quasi antropomorfica degli isterismi caparbi di Caterina, coniuga con sapienza scenica la simbologia con la umanità vibrante e sofferente di una creatura che è sola contro uno stuolo di uomini avidi di denaro, di potere, di sesso. La personalità di Caterina non è affidata solo alle tante sfumature della voce, ma è resa con la totalità del corpo, dei pugni e dei piedi che fiondano l’aria, con l’incedere ora svelto e nervoso, ora falsamente claudicante, ora lento e maestoso. Ineccepibile l’aderenza del suo gesto alla parola e della parola alla vicenda, guidata sempre dalla naturalezza e mai dal piacere di captare la benevolenza del pubblico. Autentico specchio della natura capace di mostrare al vizio la sua immagine e alla virtù il suo volto. Garbata pur nella veemenza dei momenti di isterismo e litigiosità, morbida e sobria nelle intonazioni della voce e nella successione dei movenze nella recitazione dell’ultimo, lunghissimo monologo,” Vergogna, vergogna” lanciato alle altre mogli e donne, iniziato come leggendo un testo sacro e via via recitato, quasi sermone appreso a memoria dopo il leggerlo e rileggerlo. Una Caterina quella della Gandini che specialmente nel finale supera le interpretazioni precedenti per la rassegnazione non amara con cui prende coscienza della sua identità e del suo ruolo nella società. Ruolo che accetta devotamente, creando anche con il canto una atmosfera lieta e gioiosa, razionale e ottimistica, senza tralasciare tuttavia né alcuni toni malinconici né l’invito alla meditazione sulla evanescenza e aleatorietà della felicità umana.