martedì 25 maggio 2010

Teatro dell'Opera di Roma


Altissimo Magistero di canto e recitazione
AMARILLI NIZZA
in
Madama Butterfly
Parrebbe impossibile una interpretazione di Butterfly così coinvolgente e commovente come quella donata dal soprano Amarilli Nizza all'Opera di Roma. Le interpretazioni della bimba dello squallido quartiere di Omara Nagasaki, sono così tante e così diversamente concepite che sarebbe assai arduo poter inventare stilemi fuori dai solchi di letture consolidate e convincenti. Eppure Amarilli Nizza vi riesce con una tavolozza di colori e di modulazioni della voce, con una ricchezza di fiati sospesi, di mezze voci, di vocali ora aperte ora chiuse, che sottolineano le armonie del testo e della musica, sì da offrire una lezione magistrale di canto e di recitazione. Una lezione che imponendo di ignorare ogni altro aspetto pur rilevante dello spettacolo, occorre registrare nell'ambizioso sforzo di consegnare al Lettore soltanto alcune delle magie irradiate dalla protagonista in ogni singola frase musicale, in ogni singolo atto, in ogni singola parola. Magie che illuminano il personaggio di Butterfly in modo così abbagliante che tutto quanto sarà possibile narrare non basterà che a dir poco.
Una luce che si accende già all'apparire della piccola Cio-Cio-San, quando emersa orfana e povera dai postriboli di Nagasaki, davanti al luogotenente della marina americana ricorda con rassegnazione intensa e amara Eppure conobbi la ricchezza, ma....abbiam fatto la ghescia per sostentarci. Una frase cantata con un singhiozzo che alla tristezza del ricordo aggiunge l'ansia del riscatto. Un riscatto annunciato dalla forza nostalgica di un futuro possibile, leggibile nel lirico esordio Sono la fanciulla più lieta del Giappone...d'amor venni alle soglie, nel quale il solo canto di lieta, ampio, esteso, dà una dimensione tangibile alla gioia della speranza di una redenzione colla nuova vita di sposa di un americano. Una redenzione per la quale rinuncia alla religione degli avi e con umiltà si inchina al Dio del signor Pinkerton. Con gesti sommessi e quasi nascosti, con voce tremolante di pietà annuncia che nella stessa chiesetta in ginocchio, con voi pregherò lo stesso Dio. Una scena che sollecita la riflessione contemplativa su una fanciulla che alle soglie dell'amore fa per amore una rinuncia sofferta e per la quale sarà rinnegata. Ma la gioia del matrimonio liberatore, sovrasta il pianto per il ripudio. Sulla soglia della stanza degli sposi canta mestamente, sottovoce, gli occhi a terra, Rinnegata, ma dopo una pausa di riflessione infinita, gli occhi si elevano in alto verso il firmamento, la voce si fa piena e annuncia la certezza di essere …..felice, con entrambe le “e” sostenute a lungo, messaggio amoroso di un convincimento ormai profondo. La poesia dell'amore si fa più esplicita ed eloquente e per la bimba dagli occhi pieni di malia, anche profetica. Lei conosce, le conosce, le parole che appagano gli ardenti desir, ma dirle non vuole per tema d'averne a morir! Una frase tesa, testimonianza di una verità colta nella sua tragica profezia, e lunghissima quasi a spingere verso il mai il suo avverarsi.
Allontanata la paura ha inizio la notte della seduzione e del matrimonio. Nell'attacco Adesso voi siete per me l'occhio del firmamento, nella notte serena, dolce e piena di stelle, c'è l'assoluto elevarsi dello spirito, c'è la contemplazione stupita e quasi religiosa delle meraviglie del creato. Dolce notte è pronunziata con la “o” di dolce a fior di labbra, quasi ad assaporarne tutti i profumi, mentre la “a” del successivo Quante stelle è aperta e lunga oltre misura, rivelazione della oggettiva smisurata estensione dell'universo e dell'incanto tutto proprio di fronte a un cielo mai veduto così pieno di stelle, vibrante di faville, piena di occhi fissi, attenti. E nella ripresa di Ah! Quanti occhi fissi, attenti! la esclamazione Ah! è cantata con una sola nota e il respiro trattenuto a lungo, immobile a fermare il tempo nell'incanto estatico del cielo ridente d'amore. Una interpretazione solenne, intima, soggiogante che nell'acuto conclusivo sulla frase Tutto estatico d'amor ride il ciel diventa inflessibile richiamo al pianto di commozione. Raramente è dato di ascoltare colori e modulazioni della voce che esprimono con intatta intensità cinguettio di fanciulla e sensualità femminina, leggerezza e gravità, pudicizia ed erotismo, fervore dell'animo e grazia sospesa.
Le struggenti promesse si consumano nel respiro di una notte. Poi la partenza e l'oblio del marinaio americano, rigettano Butterfly e il suo bimbo in una povertà sconsolata, dalla quale possono liberarla non le preghiere di Suzuki agli Dei Giapponesi, pigri e obesi, ma l'invocazione al Dio americano che risponde a chi l'implori. Butterfly con sicura fede lo attende. Tornerà, tornerà. Tornerà nonostante la paura di Suzuki. In un rapimento onirico Butterly vede l'apparire di una nave bianca dall'estremo confin del mare. Vede un picciol punto salire per la collina. E' lui, la chiamerà, ma lei sarà nascosta, un po' per celia, e un po' per non morire al primo incontro. Sublime la Amarilli Nizza nel distinguere un po' per celia, intimo, sommesso, sussurrato, quasi nascondino, dall'un po' per non morire, esplosione di gioia e di certezza, a voce che pian piano diviene piena e forte. E' lo slancio totale della totalità dell'essere donna innamorata e madre, sola con la sua speranza e non più stretta a Suzuki, ma da lei lontana, in un allontanamento che è il rifiuto della sua religione e della sua paura. Tienti la tua paura, io con sicura fede l'aspetto. L'aspetto: una nota sola, acuta, perentoria, senza tentennamenti, sfida alla perfidia del mondo.
Una attesa che si fa ansia quando il console Sharpless le legge la lettera nella quale Pinkerton domanda se mi vuol bene ancora, se mi aspetta. Al console risponde semplicemente Oh le dolci parole! Si coglie nella dizione della Nizza tutta la soavità gioiosa, rassicurante, sostegno a una speranza non sopita, tutto l'amore incontaminato che ancora domina il cuore della fanciulla. Un sentimento intenso e roccioso, messo alla dura prova dalla domanda del console, che fareste s'ei non dovesse ritornar più mai? cui risponde con due sole alternative: tornare a divertir la gente col cantar oppur, meglio, morire. Alla insistenza del console di accettare la proposta di matrimonio del ricco pretendente, risponde sorpresa e piangendo con un Voi, voi, signor, mi dite questo? Voi? Il terzo Voi è gridato come rimprovero al console, una riprovazione di una brutalità indegna di un uomo degli Stati Uniti, un rigetto disgustato di una oscenità che le risuona come colpo mortale. Il furore del rimprovero si addolcisce tuttavia nel dolore del successivo Oh, mi fate tanto male, tanto male, tanto, tanto! Una ripetizione per tre volte di tanto, con il terzo tanto cantato mestamente, a fior di labbra come episodio nuovo, trasmigrazione della frase rivolta al console, alla riflessione della scelta ineluttabile che dovrà fare e che toccherà lei e sopratutto il suo bimbo. Ma tornare a un mestier che al disonor porta! ...no no! Questo mai! Tragico e solenne rifiuto. Il timbro di voce si eleva e le fantasie traboccanti di una adolescente innamorata, si tramutano nel giuramento di fedeltà di una donna sentimentalmente forte, fedele all'onore e alla parola. E il nome del suo bimbo che ora è Dolore, diverrà gioia, Gioia, Gioia, mi chiamerò, se il babbo tornerà. Nella pronuncia dei nomi la voce cambia dal cupo suono delle “o” di dolore alla dolcezza avvincente delle tre vocali di gioia, gioia, ripetute per pregustarne l'intensità e trasmettere il calore della ritrovata paternità. Una paternità che, se messa in dubbio dalla voracità blasfema del pettegolezzo, scatena l'ira selvaggia della frase Ah! Tu menti, menti! Menti menti! Ah! Menti rivolta con veemenza disumana a Goro corifeo di tanta iniqua malvagità. Ma il furore si placa accanto al suo bimbo stretto al seno, in una sequenza di espressioni mia pena e mio conforto, mio piccolo amor che nella loro differente verità impongono diversi registri vocali, tutti quanti impiegati dalla Nizza con voce vellutata di struggente bellezza, salubre volo verso i cieli dell'altissima poesia. L'annuncio dell'arrivo di una nave da guerra col vessillo americano delle stelle muta l'atmosfera di sconforto in una gioia irrefrenabile. Un tremolio delle mani e singhiozzi di gioia esprimono tutta l'ansia tremolante dell'attesa e del trionfo del suo amore, della sua fedeltà. Del suo credo. E annunciano la prima metamorfosi della piccola Butterfly: dal dubbio del possibile ritorno alla certezza che è tornato. E' lui. E per lui tutto dovrà essere respiro di primavera, il giardino, il bimbo, lei stessa. Lei stessa come era stata nel primo giorno. Vo' che mi veda indosso il vel del primo dì. E primo è cantato con una nota che nella sua lunghezza pare voler cancellare dalla mente gli affanni di tre anni di lontananza e riassaporare le fragranze della prima notte. Così addobbata, si predispone all'attesa, nel silenzio. Un coro muto, eco di una voce, la voce fossile della radiazione originaria, la voce di Dio che non è né vento, né rumore, ma una brezza leggera avvolge la protagonista nel silenzio e nell'attesa. E lei, Amarilli Nizza sola sulla scena insegue le note eteree con movenze sceniche, con un dilatare delle braccia, con un incedere lento ma solenne verso il proscenio, che danno sostanza visiva all'intima, insopprimibile illusione della speranza. Una speranza mai abbandonata ma dolente. Dormi amor mio...tu sei con Dio, ed io col mio dolor, è il canto straziante con cui accompagna il suo bimbo al suo riposo e che si chiude sullo spegnersi della parola dolor, quasi candela che via via si consuma e oscura. In tale finale di scena la potenza espressiva della Nizza raggiunge i vertici di una meditazione sulla dimensione cosmica del dolore, la sua inesplorabile ragione, la sua forza devastante che indiscriminatamente colpisce piccoli e i grandi, poveri e non poveri. Lo spegnersi della sua voce su un acuto dell'ultima “o” di dolore ha tutta la eloquenza della ineluttabile resa, della vanità della speranza, della irrilevanza della sua bellezza che pure con sapienza scenica aveva accarezzato durante l'interludio precedente l'arrivo di Pinkerton.
La tragedia è ormai imminente. La scoperta che Pinkerton è tornato ma con la sua sposa americana, è il colpo mortale che sancisce la coscienza che Tutto è morto per me! Tutto è finito! E' l'ultima sollecitazione alla ricerca della dignità perduta nella Morte: con onor muore chi non può serbar vita con onore. Una riflessione dolorosa ma solenne che raggiunge i vertici della tragedia nel rifiuto della vita quale fonte di disonore e di dolore. Disonore e dolore che tuttavia devono essere ignorati del suo bimbo, perché ai dì maturi non gli rimorda il materno abbandono. In tale ultimo canto al fine di abbellire ancor più il tremendo istante, di sottrarsi ancor più all'opprimente scoperta, la Nizza mette a servigio della necessità drammatica e psicologica l'ornato virtuoso, facendone un ingrediente indispensabile che dà spessore e umanizza ulteriormente gli estremi palpiti del personaggio, come se la frase musicale già scritta non bastasse più a far defluire le forze esplosive celate nell'animo nel momento del materno abbandono.....guarda ben! Amore addio! Addio! piccolo amor!.
Un magistero di canto e di recitazione, dunque. Amarilli Nizza ha saputo riprodurre e articolare alla perfezione testo musicale e parlato, tanto da ridurli entrambi alla funzione specifica di norme per l'esecuzione, creando il miracolo della trasfigurazione della fantasia musicale e della poetica del testo in una pura, antropomorfa figura umana. Una figura artistica, astratta, generata da una fantasia musicale col suo canto diventa figura tangibile, vibrante. Umana. Col suo canto la metamorfosi è perfetta.