lunedì 1 giugno 2009

Zurigo- Ripresa del discusso allestimento di Salisburgo 2006

Il Don Giovanni di "Lorenzo Da Ponte"

Mettere in scena Don Giovanni di Mozart è una impresa collocata in quella esigua fascia che separa la razionalità dalla follia, trattandosi non di un’opera sola ma della somma di due opere: quella musicale di Mozart e quella letteraria dell’abate Lorenzo Da Ponte. Due opere che potrebbero ciascuna risplendere di luce propria e che assieme vibrano con ritmi e modulazioni non sempre corrispondenti. Somma la musica di Mozart, complessa, ricchissima di tempi –ben 40 tempi diversi- di intrecci vocali, arie, recitativi, duetti, terzetti , sestetti, strutturata per dar voce e vita a 8 personaggi, ognuno dei quali vive musicalmente di vita diversa, oscura e profonda, ognuno simbolo di una sorta di schiavitù diversa, ognuno anelante a una propria differente libertà. Allo stesso modo Da Ponte svetta con un libretto ricchissimo di rime baciate, alternate, esterne e interne (“chi a una sola è fedele/verso l’altre è crudele; io che in me sento/ sì esteso sentimento”), di versi liberi con oscillazioni continue tra misure canoniche e vistose ipermetrie. Rime coinvolte nel gioco delle ripetizioni che avvalendosi degli effetti fonici e delle parole tronche a fine strofa, conferiscono al testo una valenza ossessiva e perfino allucinante. Si ascolti Masetto nella scena IX dell’Atto I.
“Ho capito signor sì/chino il capo e me ne vo/ già che piace a voi così/altre repliche non fo/”
V’è già nel testo una tessitura fonica che si aggiunge alla tessitura dello spartito arricchendolo ma spesso allontanandosene. C’è ancora nel testo una universalità nello spazio espressa stupendamente nel celebre catalogo di Leporello. “ogni villa, ogni borgo, ogni villa, ogni paese/ è testimone delle sue donnesche imprese”. E poi una universalità nella stratificazione sociale di ogni tempo: “V’han fra queste contadine,/ cameriere, cittadine,/ v’han contesse, baronesse,/ marchesane, principesse,/ e v’han donne d’ogni grado,/ d’ogni forma, d’ogni età!”.
Il Don Giovanni è in chiunque, comunque e dovunque. E’ un uragano di sensualità nella accezione della totalità dei sensi:
l’olfatto -dituccia candide e odorose, parmi toccar giuncata e fiutar rose. L’odor di femmina,
il gusto -che piatto saporito; eccellente marzimino; eccellente il vostro cuoco;
la vista -oh guarda guarda, che bella gioventù! Che belle donne!
Il tatto -il palpeggiamento di Leporello che esibisce la sua protezione
L’udito -voi sonate, amici cari. ….Che ti par del bel concerto?

Il libretto ancora abbonda di raffinatezze stilistiche ed elevazioni poetiche. Al cimitero, davanti alla statua del Commentatore Don Giovanni canta: ....che bella notte! E’ più chiara del giorno! E’ la luminosità liberatrice della Morte, per i credenti finanche l’inizio della vita eterna, cui fa cenno il Commendatore invitato a cena: “non si pasce di cibo mortale/chi si pasce di cibo celeste/ altre cure più gravi di queste,/altra brama quaggiù mi guidò!”
Un’opera duale nella quale la drammatica verità della Morte, presente e temuta, si contrappone alla immensa vitalità sensuale di Don Giovanni, che per nutrirla ha folle bisogno degli altri. I quali risucchiati da tanto parassitismo, cessano di essere soggetti per sé, per divenire maschere ingabbiate nella follia vuota e annientatrice dell’infame traditore.
A tale lettura sembra essersi ispirato il regista Martin Kursj, nella sua edizione del Don Giovanni a Salisburgo nel 2006, ripreso di recente a Zurigo. Se ne colgono i sintomi già nell’azione scenica che accompagna la esecuzione della ouverture.
Solitamente eseguita a sipario chiuso e senza alcuna azione scenica, nella regia di Kursj l’ouverture è accompagnata dall’ingresso in un ambiente chiuso e bianchissimo di personaggi resi anonimi da occhiali e impermeabili neri. Con l’attacco della cavatina di Leporello, l’immenso ambiente si apre e si scopre trattarsi di una sorta di ospedale psichiatrico nel quale la perduta capacità percettiva e sensitiva dei pazienti - la loro nudità- è esemplificata da una serie di figuranti tutte rigorosamente in reggiseno e slip bianchi. Il bianco che investe tutto il palcoscenico e che accentua il riferimento a un mondo di infermi privi ormai di tutto tranne forse della vita vegetale. I sentimenti, le passioni, le generosità, le pulsioni di tutti, interpreti e figuranti, sono come assorbiti dal demoniaco e incontrastato dominio di Don Giovanni che di tutti si nutre per nutrire se stesso. Coerentemente l’Aria dello champagne: Fin ch’han dal vino calda la testa/una gran festa fa preparar.…, aria dal ritmo di danza furiosa, espressione di ubriachezza e vaneggiamento, è eseguita con l’attraversamento di tutte le stanze dell’ospedale, a dimostrazione ad un tempo della ricerca di prede di cui nutrirsi e di sollievo medico dal vuoto di Morte da cui si sente atterrito. Dal timore della Morte, di cui egli stesso è stato artefice nell’assassinio del Commentatore, ha un bisogno di esserne liberato intenso ed estremo, che raggiunge l’apoteosi nel canto della libertà: Viva la libertà! (Atto I scena XX)
E’ lo stesso canto di tutti gli altri protagonisti, che danno tuttavia alla esaltazione della libertà significati diversi. Leporello invoca la libertà perché …non vuol più servir…Donna Elvira sente il peso dell’offesa che vuol vendicare e invoca la libertà che la sottragga al suo stesso furore di volerne fare orrendo scempio, e cavarne il cor. Donn’Anna aggredita nell’onore, piagata nel misero seno e privata del padre, ah! Il Padre amato, il Padre mio dov’è?…, chiede a Don Ottavio di vendicarla. Un’ansia e una angoscia di vendetta da cui sente il bisogno di liberarsi con la morte del traditore. E’ una atmosfera di esasperato parossismo, che la regia descrive con forme allucinanti di danza degli infermi di mente ospiti della casa di cura. Il Ah Padron son tutti morti di Leporello, vien anticipato nella scena finale dell’Atto I come scena di tutti matti. Lugubre interpretazione scenica, che fa violenza alla stretta, stupenda armonica dell’orchestra da camera che in sottofondo intreccia contemporaneamente tre danze di tre differenti strati sociali: il minuetto, il fandango e l’alemana tedesca.
Il senso di vuoto, di follia e di Morte si accentua nell’Atto II, nella tenebrosa scena del cimitero, davanti alla statua mortuaria del Commentatore. La residua vita vegetale degli infermi dell’ospedale psichiatrico si trasforma in totale annientamento: non più figure folli ma vive, quanto ormai stele funerarie che addobbano il cimitero. Eppure in tanta lugubre atmosfera di notte e di Morte una luce spettrale illumina Don Giovanni che recita ....che bella notte! E’ più chiara del giorno! Una esaltazione della Morte quale veicolo di libertà o forse anche riflessione scaramantica per allontanarla. In quel luogo di morte Don Giovanni avverte la solitudine e l’imminenza della sua medesima sorte nell’ascolto dell’invito a cena del Commentatore. Tenta di rinviare il momento supremo nel modo consueto di dare sfogo ai suoi sensi…Vivan! le femmine,/ viva il buon vino,/ sostegno e gloria/ d’umanità!/, momento che invece si avvicina ineluttabile con l’ingresso inatteso del Commentatore: Don Giovanni, a cenar teco/ m’ invitasti, e son venuto/ e la sua ingiunzione perentoria e senza scampo ‘‘Parlo, ascolta, più tempo non ho/ ….Rispondimi, verrai tu /a cenar meco?’’ Don Giovanni sente il battito del cuore stupendamente sottolineato da una successione sincopata ma veloce dell’orchestra, ma per nulla intimorito ‘’non ho timor’’ accetta l’invito e il pegno: la mano da dare. Il gelo mortale lo assale, ‘’che gelo e’ questo mai!’’ ma contrariamente alle interpretazioni consuete, egli non e’ risucchiato dalle forze eterne, ma e’ pugnalato da Leporello, il servitore che con follia lucida e determinata vendica le offese e i tradimenti subiti dalle Donne, e libera se stesso dalla schiavitù del servaggio. L’atmosfera di gelo, di follia e di Morte si converte in una atmosfera più’ pacata e rappacificata. Le figuranti pazze e tutti gli interpreti sono avvolti da una coltre di neve bianca e purificatrice, che consente a ciascuno di ritrovare se stesso e di procedere a una forma di autoanalisi. Il sestetto dei sopravissuti, ormai fuori dalla gabbia psichiatrica assieme ma soli nelle individualità devastate, in un rondò stupendo giungono alla medesima conclusine sulla Morte: ‘’Questo e’ il fin di chi fa mal /e de’ perfidi la morte/alla vita e’ sempre ugual !’’. La morte quale punizione per i dissoluti, in contrasto con la visione di Don Giovanni che pur temendola la considera luminosa e liberatrice.
Spettacolo dunque assai discutibile, seppure non privo di spunti originali e sapienti. Ma l’aver abbandonato la musica, l’aver scelto ogni azione scenica in funzione del libretto e non della partitura musicale, la conseguente sconnessione tra drammaturgia e qualità musicale appaiono arbitrari e depauperano in modo difficilmente accettabile la somma tra le somme opere in musica di ogni tempo.