mercoledì 21 aprile 2010

BARI – Teatro PETRUZZELLI

La Cenerentola
di
Gioacchino Rossini

L’incanto di un messaggio quasi religioso

Dopo il furore di odio e di sangue delle devastanti guerre napoleoniche che avevano privato l’Italia della sua gioventù migliore, dopo quell’infausto tentativo di restaurazione degli antichi sistemi politici e degli antichi privilegi spazzati via dalla Rivoluzione Francese, dominava nello spirito degli uomini più illuminati il bisogno di una rigenerazione spirituale, di una rappacificazione e di un perdono condiviso. Anche Rossini, che alla politica si sentiva e fu estraneo, per quel prodigio che accarezza sempre i geni sommi, nel 1817 passata la bufera napoleonica e concluso il Congresso di Vienna sentì di dover dare voce a tale bisogno. Di strumenti ne aveva uno solo ma traboccante: la musica. E la utilizzò. La utilizzò tuttavia con i canoni che gli erano propri, quei canoni che gli permettevano di cogliere anche nella drammaticità delle situazioni e degli accadimenti quotidiani aspetti comici e paradossali. Quegli aspetti che filtrati con l’intelligenza dell’ironia, alla farsa conferiscono la dignità del sorriso amaro e riflessivo, e la elevano all’altezza dell’apologo morale, quasi messaggio religioso. Per questo nella sua Cenerentola si fondono in un'unità armoniosa e si integrano in un equilibrio mirabile e perfetto, gli aspetti buffi con quelli onirici, quelli esilaranti con quelli poetici, quelli farseschi con quelli etici. L’elemento unificante è la sua musica mai greve, mai banale, e che anche là dove il testo perde di pregnanza e fascino, resta incontaminata nel suo ritmo continuo e travolgente, nella sua superiore armonia affascinante e coinvolgente, nella sua eleganza descrittiva.

Don Magnifico, barone di Montefiascone, è la nobiltà decaduta, annientata da debiti e ipoteche fino agli stivali a tromba, la quale tuttavia aspira alla sua restaurazione attraverso il sodalizio principesco di una delle sue figlie. E nel ratto onirico della sua cecità mentale sogna dozzine di nipoti regali, un re piccolo di qua/ un re bambolo di là/ e la gloria mia sarà, immagina al suo palazzo crollato e in agonia l’andirivieni di un supplichevole drappello di importuni seccatori. Le sue figlie un misto di insolenza, di capriccio e vanità, si insultano e si offendono, insultano e offendono Cenerentola, sorellastra Donna sciocca ! alma di fango, assetate entrambe dalla lurida voluttà di salire al trono e sorde a ogni richiesta di carità. Alla cecità di Don Magnifico e alla sordità delle sue viscere cui si raccomanda, risponde con ingenuità luminosa e veggente Angelina. La Cenerentola. La quale dal nulla della sua povertà e semplicità coglie che il suo fasto è la virtù, che la ricchezza è l’amore, e ad Alidoro che fintamente mendica un tantin di carità, offre un po’ di colazione. Alidoro, scacciato quale tanfo dalle sorellastre Tisbe e Clorinda con un furente Accattone, via di qua, diventa la materializzazione del premio eterno promesso alla bontà. La sua Aria “Là del cielo nell’arcano profondo/del poter sull’altissimo Trono/veglia un Nume signore del mondo/….Tutto sa, tutto vede,/e non lascia/nell’ambascia/perir la bontà” si eleva alle sommità di un sermone che sollecita la fede e motiva la speranza. Ieratico, profetico, sontuoso nella possanza della voce di basso, Alidoro diventa l’epicentro che sconvolge la vita di Angelina, diventa l’Angelo consolatore che la sottrae alla vergogna della cenere e la conduce sul trono del principe. Alidoro, personaggio in apparenza secondario è nel contempo il messaggero più eloquente di una Forza superiore, irriconoscibile ma presente, e lo strumento capace di cangiare come un baleno rapido la sorte di chi lo accoglie pur nelle vesti di un povero mendico, del quale non cerca la identità ma ne riconosce la condizione. Nella sua constatazione che il nembo è terminato e il destino s’è cangiato e nella promessa che l’innocenza brillerà, v’è tutta l’abbagliante bellezza di un messaggio di speranza contro le iniquità del mondo immondo. Angelina è la testimonianza di una umanità che nata all’affanno e al pianto, condannata a vivere nella cenere immonda, avverte una voce di salvezza che la eleva sul trono non per vendicarsi ma per perdonare: E sarà mia vendetta /il lor perdono. Una voce che è rivelazione, che lei conserva segretamente e che le consente di assistere alle insolenze delle sorellastre e alla arroganza fatua del patrigno con un distacco sereno e consolante. Si dipanano allora davanti a lei fatti e inganni, attese e improbabili sogni, travestimenti, inganni, intrecci avviluppati di fatti che lei guarda ormai come attinenti a un mondo non più suo e dal quale si sente ormai esule. In tale mondo si muovono quasi figuranti i personaggi del Principe Ramiro, innamorato di Angelina e da lei riamato e Dandini, suo servitore travestito. Personaggi poco delineati, che solo a contatto con Angelina raggiungono una consistenza e una verità plausibili. Se infatti l’aria del secondo atto di Ramiro, “Sì, ritrovarla io giuro”, è affatto convenzionale, molto più eloquente nella caratterizzazione del personaggio è il bellissimo recitativo “Tutto è deserto”, con il quale il Principe si presenta al palazzo di Don Magnifico preceduto da un balbettare dell’orchestra a sottolineare il suo spirito in bilico fra stupore e incantamento. È il punto in cui l’opera maggiormente si dissolve nell’atmosfera della fiaba, e che rende il seguente duetto con Cenerentola il più bel duetto d’amore che Rossini abbia mai composto. Sbalorditiva, in quel canto, è la capacità del Maestro di tradurre in poche battute e con una fulminante pittura musicale tutti i trasalimenti e il turbamento di due giovani innamorati a prima vista: “già più me non trovo in me/che innocenza, che candore!”.
A Dandini Rossini affida arie ed eloqui giocosi che riportano l’opera al divertimento fiabesco e raffinato, ma che non intaccano l’intima e stupefatta metamorfosi di Angelina. La quale da figura pateticamente sognante nella sua iniziale malinconica canzone “Una volta c’era un re”, levita progressivamente verso la pazzia di gioia che esprime nello sfavillante rondò finale “ah fu un lampo, /un sogno, un gioco/ il mio lungo palpitar”. Personaggi dunque non marginali nello sciogliersi del nodo avviluppato, ma dalle psicologie assai superficiali perché solo pretesto alla geniale narrazione del trionfo della bontà.
Opera somma e luminosa leggibile da angolazioni diverse e tutte legittime, tanto copiosa è la partitura e ricchissima la tavolozza musicale.
L’allestimento al Teatro Petruzzelli di Daniele Abbado nella ambientazione e nei costumi senza eccessive connotazioni di tempo predilige la lettura di un’opera immortale e ancora attuale, dominata dall’apparire e scomparire di scale testimonianza visiva della discesa o ascesi di rango dei vari personaggi, del loro essere e non essere attraverso l’apparire e lo scomparire di passerelle e varchi. Una lettura legittima, ma una messa in scena non esaltante che anzi mortifica l’azione scenica dei cantanti costretti a equilibrismi che distolgono dalla concentrazione.
Cantanti affiatati e bravi, seppure in misura differente, tra i quali meritano una citazione particolare le due sorellastre Alessandra Volpe ed Eleonora Cilli e la giovanissima Josè Maria Lo Monaco, Angelina.
Alessandra Volpe (Tisbe), dotata di splendida presenza scenica e di una voce possente, assieme a Eleonora Cilli (Clorinda) dalla voce pastosa e dalla dizione limpida, descrivono in modo perfetto due sorellastre insolenti, vivaci, ciarliere e garrule. Con un ventaglio sapido di azioni e movenze sceniche conferiscono alle sorellastre una comicità non sfrenata e da avanspettacolo, ma una comicità che sollecita con il sorriso anche la commiserazione.
Di José Maria Lo Monaco sorprende la purezza degli attacchi, la sonorità argentina degli acuti estremi, l’agilità perlacea, e sopratutto l’estensione dei mezzi vocali nel passare senza ripresa del respiro dai sotterranei sonori alle vette delle noti acute. Tanta dovizia di vocalità assieme alle straordinarie qualità di interprete e di attrice, apportano un soffio nuovo alle atmosfere spesso gravi e accademiche del teatro d’opera. La totale identificazione del canto alla parola e della parola alle intime modulazioni, alle metamorfosi del personaggio, ha il respiro di un magistero che saprà relegare quali residui della paccottiglia i paradigmi del bel canto per ridare dignità al canto attraverso l’arte contestuale e inscindibile della interpretazione scenica. Le esemplificazioni possibili sono tante. Dalla canzone melanconica del “Una volta c’era un Re..” cantata in modo sommesso e tutto intimo, alla gioia estatica con cui scopre in sé la dolcezza del sorriso di Ramiro che “scende all’alma e fa sperar”, alla triste constatazione del “Io chi sono? Eh! non lo so”, frase cantata con un fiato sospeso e tenuto a lungo, quasi riflessione esistenziale sul suo e sul destino delle tante fanciulle figlie di madri vedove.
Il suo capolavoro resta comunque il tocco delicato e commovente impresso al recitativo e al rondò finali. Di straordinaria raffinatezza stilistica la dizione “E sarà la mia vendetta il lor perdono” nel quale dopo il tono imperioso e quasi furente nella dizione vendetta, la voce si addolcisce sulla pronunzia de il lor perdono. Il rondò “Nacqui all’affanno e al pianto” poi è reso un’oasi di magia sonora arricchito da ghirlande di fioriture a fior di labbra di innegabile, esaltante suggestione. Una prova che testimonia la classe di un soprano che saggiamente coniuga la maestria di uno stile di canto impeccabile, con la naturalezza di una recitazione fedele alla personalità della protagonista.
Non da ultimo un riconoscimento al Maestro Evelino Pidò che ha saputo dosare il ruolo dell’orchestra in modo sapiente e tale da renderla volta a volta protagonista assoluta assorbendo nella tavolozza dei colori orchestrali anche le voci dei cantanti, come nel quintetto “Nel volto estatico di questo e quello” e nel sestetto “Questo è un nodo avviluppato” a volta totale sostegno del canto come nella lunghissima e vertiginosa aria di Don Magnifico “Sia qualunque delle figlie….” fino alla felicissima intuizione di assecondare del tutto l’interprete nel rondò finale, col quale lo svettare di Cenerentola sulla orchestra testimonia il trionfo dello spirito di bontà sulla magia stessa della musica.
Si chiude così La Cenerentola di Rossini, opera di somma sapienza che in un mondo dominato ancora da odi e vendette, dalla furia cieca del terrorismo e della follia omicida, sollecita la speranza in un Nume che tra la cenere, il pianto e l’affanno, tutto sa, tutto vede, e pur nell’angoscia non lascia perire la bontà. Messaggio altissimo, e se non evangelico, forse almeno religioso.
Manlio Mirabile