venerdì 24 dicembre 2010

REGGIO CALABRIA-TEATRO FRANCESCO CILEA

LA BOHÈME di Giacomo Puccini
Poetica narrazione di quella gioiosa malattia che è la giovinezza

E’ raro perché difficile riuscire a mettere in scena in modo convincente un’opera così ricca di personaggi, ambienti, situazioni e vicende. Un giocondo prodigio è invece accaduto a Reggio Calabria in uno spettacolo quasi perfetto: nel canto, nella orchestrazione, nella regia, nei costumi, nella scenografia.
Stupefacente la direzione d’orchestra di Gianluca Martinenghi. La descrizione della soffitta gelida nella vigilia di Natale con cui l’opera si apre, è una fioritura continua di colori orchestrali che con la stessa bellezza dei pittori impressionisti esprimono più del testo il senso gioioso e canzonatorio con cui giovani ricchi di talento ma poveri di mezzi si ingegnano per coniugare pranzo e cena. Domina una atmosfera surreale riscaldata da una stufa spenta, che in fondo alla scena pare simboleggiare lo spegnarsi dell’anima a fronte di una vita priva di prospettive e densa di incognite. Lo sfavillio dell’orchestra dà alle note una forma di materialità che zampilla sugli spettatori e crea risonanze inebrianti e coinvolgenti. Una pioggia di note modulate in una rifinitura di alta poesia, piove sugli spiriti più diversi e li convoca davanti al mistero di quella divina malattia che tutti colpisce e da cui tutti guariscono: la giovinezza. L’età dei sogni, delle chimere, delle lusinghe, delle seduzioni, delle gelosie, interrotta ingiustamente dalla ineluttabilità della morte.
In quella povertà della soffitta poco riscaldata e ancor meno illuminata, irrompe una fanciulla vicina di casa che chiede luce per il suo lume. In realtà cerca l’amore e il calore dell’amore. Così la povertà si arricchisce e il gelo diventa calore. Mimì e Rodolfo già segretamente innamorati si cercano, si trovano e si raccontano. Il canto bellissimo di Lorenzo Decaro (Rodolfo) in “Che gelida manina” è arricchito dalle movenze sceniche di Amarilli Nizza. La quale lontana dalle interpretazioni stereotipiche, dà con le sue eloquenti movenze pregnanza di verità al canto del giovane. Lei ne è innamorata e lo lascia capire dall’estasi con cui lo ascolta, sfogliando con grazia tutta femminile le pagine delle sue rime di poeta, offrendogli dolcemente gli occhi sulla frase “ruban tutti i gioielli due ladri: occhi belli”. E poi gli risponde con il racconto di se stessa “Sì, mi chiamano Mimì”, un racconto cesellato da preziosità di canto e di vezzi di giovane innamorata che si predispone al dolcissimo gioco della seduzione e lo accetta. Racconta il suo svago nel ricamo di gigli e fiori, ma al poeta, con una dizione melliflua, tenendo ancora tra le mani le pagine delle sue rime, con un porgere leggiadro del volto, dichiara, dichiarandosi, “..mi piacciono quelle cose che han nome poesia. Lei m’intende?” L’amore è sbocciato e la scena concepita da Mario De Carlo lentamente si illumina di una luce calda e radiosa assai diversa dai colori lividi e invernali precedenti. In tale mutata atmosfera Mimì continua il suo racconto di giovine sola in una cameretta bianca, che teme il freddo e guarda sui tetti e in cielo, in attesa della primavera. Sulla nota de “il cielo” in cui la pronuncia dà nitore alla dolcezza delle vocali, Amarilli si sofferma a lungo e con il prolungarsi del respiro fa cogliere l’infinito del cielo. Poi lo sguardo, alto verso i tetti e il cielo, ritorna basso sulla frase “il primo sole è mio”, una frase cantata mentre le braccia, prima stese, via via si chiudono a carpire il sole e a tenerlo tutto. E poi ancora “il primo bacio dell’aprile è mio” è cantato con mirabile fonazione della vocali in rima di bacio e mio e con la m di mio come se fosse doppia, certezza di una proprietà incontestabile. Ma mentre con tale allegra certezza racconta il suo spiare il germoglio di una rosa profumata, il rinascere della natura a ogni primavera, tristemente riconosce che i suoi fiori non hanno odore, cosciente affermazione che la sua storia è stata e sarà breve, priva di profumo, di speranze, di giocondità. In quell’aria, l’arte della Amarilli raggiunge vertici di poesia sublime. In essa si coglie tutto il mistero di una giovinezza che ambisce all’amore come sollievo alla povertà e alla sofferenza, cosciente tuttavia del male che l’ha colpita.
Intanto fuori e lontano da quella soffitta la vita palpita e continua con i suoi caffè, i suoi mercatini, le sue bande, la sua festosa frenesia, le sue civetterie sognanti. Il Caffè Momus nella splendida interpretazione scenografica di De Carlo è la sintesi del mondo della Belle Epoque. Un mondo nel quale ricchi e poveri, vecchi e bambini, nobiltà e venditori ambulanti, immagine riflessa delle molteplici stratificazioni sociali, esibiscono una vitalità inarrestabile. Protagonista assoluta di tale mondo è Musetta che descrive se stessa e quel mondo col celeberrimo Valzer. Maryna Ziatkova seducente con il suo cinguettante canto rivela la personalità più eterea e seducente nel rinnovato incanto di una nuova femminilità che abbandonato il tradizionale ruolo sommesso e sottomesso della donna, insegue gli itinerari ameni del lusso e della mondanità, inconscia prigioniera di stati mentali erratici e sognanti. Così il volto della femminilità dispiega espressioni di una emancipazione serrata, che cerca di affermare il ruolo della donna-amante, corteggiata, inseguita, eroticamente inquietante. Un quadro festoso e sgargiante nella ricchezza dei costumi, nello sfavillare delle luci, dei colori, della preziosità dei costumi che si chiude coralmente sulle stessa melodia di Musetta, testimonianza della accettazione indiscussa del suo nuovo credo. Trattasi tuttavia della fine di un sogno e del triste ritorno alla realtà.
Nelle brume di una giornata d’inverno, nel silenzio ovattato della neve che fiocca, Mimì sola racconta a Marcello (un Cüneyt Ünsalin in gran forma) la gelosia di Rodolfo e ne invoca aiuto. Amarilli pronuncia “Aiutateci, Aiutateci voi”, stendendo le mani verso l’amico con un realismo e una intensità comunicativa che danno alla sua implorazione tutta la forza di una fede nel potere salvifico ma immaginario dell’amicizia. Ma Rodolfo non è geloso, è invece torturato dalla sua impotenza di fronte alla malattia e alla ineluttabile fine di Mimì. Tutto è inadeguato a darle sollievo: la sua squallida stanza, il freddo, l’umidità, l’aggirarsi della tramontana, il suo stesso amore non può richiamarla in vita. Un racconto triste la cui desolazione è stupendamente resa palpabile e irradiata nella sua verità dalla melodia triste e soffusa degli archi e dei fiati. Un racconto che Mimì ha ascoltato non veduta e che le procura un dolore mortale. L’Ahimè! Ahimè. E’ finita! è cantato come definitiva assunzione della coscienza di una fanciulla innamorata che intravede ormai la fine dell’amore e della stessa esistenza. E allora con la mente ingombra di presagi tristi trova rifugio nelle illusioni liete vissute nel suo nido solitario da dove uscì lieta al grido d’amore e dove ora ritorna per intessere finti fior. Il canto di Amarilli fa del finti, il punto focale della romanza: struggente riflessione sulla finzione dei fiori quale emblema della finzione della vita, che appare ricca ed è povera, appare lunga ed è breve, appare felice ed è sofferenza. Eppure la forza della giovinezza porta ancora i due innamorati a un incontro che sembra di addio e invece si trasforma nella promessa di non lasciarsi soli nel freddo dell’inverno; ma di lasciarsi solo a primavera, nella stagion dei fiori, quando sarà il sole a esser compagno. Gli accordi degli archi e dei fiati durante il duetto della promessa sono sfumati, languidi, magistralmente descrittivi al contempo della dolcezza intima degli amanti come del malinconico paesaggio invernale. E’ una melodia sognante che l’irrompere secco e repentino dei timpani e degli ottoni, trasforma nel presagio di una fine imminente e tragica.
La malattia di Mimì si aggrava, le cure sono più impellenti, le risorse più scarse. In un trasporto di intenso affetto e autentica devozione, alla ricerca di spiccioli Colline il filosofo (Alessandro Tirotta) pignora la sua zimarra. Ma prima di portarla al Monte di Pietà (il sacro monte) dà l’addio alla fedele amica, testimone di giorni lieti vissuti nell’affanno ma mai nel disonore, orgoglioso di non aver curvato il logoro dorso ai ricchi ai potenti. Il gesticolare lento e cadenzato di Colline nel piegarla, quasi ad allontanare il tempo del suo addio, rende densa di commozione e di simboli un’aria breve, scrigno del suo passato. La straordinaria orchestrazione diffonde un senso di solitudine e di melanconia reso più intenso e vibrante dalla penombra creata da luci che nettamente dividono lo spazio scenico in due, demarcazione netta tra passato e presente.
Tutta l’atmosfera si rivolge al passato. Le luci diventano quelle calde e radiose dei giorni belli, l’orchestra riprende l’aria di Rodolfo del primo incontro, con la dolcezza lieve dei fiati e la dilatazione successiva a tutta l’orchestra, dominata dagli sfavillii dei violini. Un brevissimo interludio magico, in cui l’orchestra diventa lei stessa interprete nella descrizione con gli splendidi colloqui degli strumenti, dell’atmosfera sognante ma perduta del primo sì. Nella soffitta sono ormai soli Rodolfo e Mimì. Il suo pallore, l’andatura barcollante, la frequenza dei colpi di tosse, annunciando la fine accentuano il bisogno del ritorno al passato, unico periodo felice di una gioventù condannata a concludersi anzitempo. Su di una poltrona, la Mimì di Amarilli canta prodigiosamente con Rodolfo l’ultimo duetto ”Sono andati, fingevo di dormire”. La sua anima straziata e rassegnata, ondeggiante tra la nostalgia del tempo andato e la coscienza dell’imminente fine, è resa con una interpretazione della voce e una gestualità di una eloquenza e di una verità supreme. La pronuncia del sei nella frase “Sei…tutta la mia vita!” e il successivo “Mi chiamano Mimì e il perché non so” sono rese con note sempre più lunghe, con il canto che diventa recitazione, e la recitazione sempre più sincopata e affannosa, i brividi più intensi ed evidenti. Un barlume di vita si riaccende con gioia al ricevere di un manicotto sulle mani allividite e nell’assaporarne il tepore. Con uno scuotere leggero della testa Amarilli dà a questi ultimi istanti di vita il messaggio confortevole che piccole cose possono aver ragione di sofferenze intense e produrre dolci sensazioni come il dormire. “Le mani al caldo e …dormire”. Appare un ritorno alla vita e invece è la fine. E’ il sonno eterno. In attesa di un medico, di una salvezza esterna che “verrà” in un domani senza fine, Mimì declina il capo, il manicotto le scivola dalle mani. E’ morta. Raramente è dato di assistere a un trapasso così naturale, così vero, così commovente. Felice l’intuizione della regia di De Carlo di far morire Mimì su di una poltrona, invece che in un letto. Il venir meno della vita è meno apparente e il giungere della morte quasi inosservato. Rodolfo non ne ha coscienza e chiede “che vuol dire quell’andare e venire così? Straordinario Decaro nel conferire alla frase tutta l’inutilità della domanda di fronte alla morte. Così che la stessa è pronunciata con sospensione: que.. andare..…e… ven…così? Che è attesa, stupore e coscienza del declino temuto. Col pianto singhiozzante di Rodolfo, sul grido Mimì, Mimì, l’orchestra esplode magistralmente con le note dell’ultima aria mesta e rassegnata di Mimì, arricchite da un ritmo cadenzato di ottoni che descrivono l’atmosfera lugubre di morte e di esequie. Le luci di scena si abbassano lentamente. Il triste trapasso si è consumato. Le note estreme, dapprima da brividi e via via smorzate, inondano il pubblico strappando con gli applausi un scroscio di lacrime.