lunedì 6 febbraio 2012

Sovrana prova di maturità di Amarilli Nizza, resa con avvenenza, intensità espressiva e lirico erotismo.

VERONA - TEATRO FILARMONICO

PAGLIACCI

di Ruggero Leoncavallo

Identità false e angosce vere nell’irrisolto enigma della realtà e della finzione

Il Verismo nato in Italia dopo il compimento della eroica stagione del Risorgimento, si concentrò non più sui grandi temi della Unità, della Patria, della Indipendenza ma sui temi che la nuova Italia stava evidenziando senza proclami ed eroismi, ma in forma viva e sconcertante. I temi sociali e umani legati all’irrompere della violenza privata in assenza di un ordinamento giuridico certo e funzionante, connessi al dilagare della povertà, all’imperversare di una autarchia facilitata dalla latitanza delle strutture del nuovo Stato Unitario. Temi verso cui si volsero con una attenzione maggiore e una partecipazione più solidale le varie correnti culturali. Nella letteratura operistica, il Verismo ponendosi nel solco della letteratura in prosa e registrando in aggiunta l’insostenibilità della magniloquenza delle orchestre maestose, la obsolescenza del senso metafisico della musica fantastica sorretta da trame mitologiche o sagre nazionali, privilegiò l’uso di libretti fondati su situazioni e personaggi reali, su episodi realmente accaduti in contesti ambientali e di cultura contemporanei. Esso volle tuttavia salvaguardare, come nel Verismo letterario, il principio del distacco assoluto dell'autore, che abdicando al suo ruolo di creatore della vicenda diveniva soltanto un osservatore, scientifico e impersonale. Ma se per la novellistica tale porsi al di fuori del contesto degli eventi narrati aveva senso e credibilità, per la letteratura musicale soffriva di non senso. Come poteva infatti trovare un'adesione "veristica" alla realtà, un genere artistico in cui i protagonisti cantano invece di parlare e i tempi della vicenda sono dettati non dallo scorrere immutabile del tempo, bensì dalle ragioni dell'espressione musicale? E come poteva essere imparziale un compositore chiamato a sottolineare con i temi orchestrali e con le melodie del canto l'espansione intima dei personaggi, se nella realtà ognuno si esprime senza né canto né orchestre? La intrinseca inconciliabilità del verismo letterario con il verismo musicale fu colto correttamente da Leoncavallo, il quale con uno stratagemma arguto fece precedere la sua opera da un Prologo, vero manifesto della poetica verista in campo musicale. Manifesto con cui l'autore intese esporre non solo le ragioni -l’artista è un uomo e per gli uomini scrivere ei deve-, e le fonti della sua ispirazione - al vero ispirarsi, dipingendo uno squarcio di vita- ma anche la fondamentale differenza tra fatti, tra sentimenti descritti e gli attori che li interpretano. Gli uni sono veri perché ispirati alla cronaca di fatti veri: vero l'amore, vero l'odio, veri il dolore, la rabbia, il cinismo. Ma gli attori no! Gli attori sono uomini di carne ed ossa che vestono povere gabbane di istrioni e che al pari del pubblico vivono in un mondo orfano e arcano, privo di leggi e misterioso. Pertanto di essi vanno considerate le anime e non le azioni simulate. Prologo di rara incongruenza teorica e versi assolutamente improbabili ma di sconvolgente bellezza musicale.
Eppure ignorando il Prologo Pagliacci sollecita la riflessione del rapporto tra teatro e vita, tra verità e finzione, tra identità false e sentimenti veri, nel quale il gioco scenico compenetrando i due mondi ne annulla i rispettivi confini. Se infatti nella recitazione si nasconde l'identità, e la maschera che copre il viso nasconde anche l'anima e le sue mostruosità, nei Pagliacci la maschera diviene l'identità stessa del personaggio che nella rappresentazione rivive il proprio stesso dramma. Opera dunque densa di verità che arricchite dalla poesia musicale fanno nascere un capolavoro. Un capolavoro che trasfigura con la bellezza della melodia e la ricchezza della orchestrazione l’infima miseria di un fatto di cronaca nera.
La storia di Canio, teatrante girovago, e della giovane moglie Nedda, è indubbiamente romanzata e trae dalla cronaca solo lo spunto. Sin dall'inizio, il racconto richiama alla meditazione sul difficile rapporto finzione-realtà. Canio sta presentando in paese lo spettacolo della sera quando un contadino burlone, riferendosi a Tonio, torbido e sordido personaggio, gli dice "…, ei solo vuol restare per far la corte a Nedda". Lo sguardo feroce di Canio gli fa morire le parole sulle labbra: "Un tal giuoco, è meglio non giocarlo con me! Il teatro e la vita non son la stessa cosa e se lassù Pagliaccio sorprende la sua sposa col bel galante in camera, fa un comico sermone, poi si calma od arrendesi ai colpi di bastone! Ed il pubblico applaude, ridendo allegramente! Ma se Nedda sul serio sorprendessi, altramente finirebbe la storia, ..! . Una affermazione perentoria che lascia Nedda confusa e impaurita.
Il teatro e la vita dunque non sono la stessa cosa, eppure è proprio ciò che accadrà: la compenetrazione dei due mondi in uno solo. In scena Pagliaccio dirà le parole che Canio avrebbe detto nella realtà, e Nedda nel ruolo di Colombina dirà ad Arlecchino suo amante nella commedia -A stanotte e per sempre tua sarò- le medesime parole pronunciate a Silvio l'amante vero. Sulla scena durante la commedia Pagliaccio le ascolterà come prima Canio le aveva ascoltate fuori scena. E sulla scena ucciderà la moglie, realmente, come avrebbe fatto fuori scena. In tale totale compenetrazione di immaginazione e realtà, falsa identità e angoscia vera, nella sintonia creata tra il pubblico sul palcoscenico e il pubblico in platea, si colgono la originalità incandescente e la potenza emotiva dei Pagliacci, che sviluppa egregiamente il gioco del "teatro nel teatro", di fingere una finzione che tragicamente diventa realtà.
La suggestione scenografica di tale opera nello storico allestimento di Franco Zeffirelli è di una soggiogante bellezza. Come in una cattedrale pullulano nella maestà delle navate e delle absidi personaggi biblici, così nella messa in scena del Maestro sciama la umanità eterogenea e variopinta dei bimbi, delle signore, dei travestiti, dei giocolieri, degli sposi, e dei personaggi, in tre spazi diversi: la piazza arredata con le insegne luminose dei negozi, il palcoscenico della compagnia di girovaghi, i ballatoi e i camminamenti degli abitanti all’aperto nel caldo di metà agosto. Tanta umanità e tanta ricchezza di colori e costumi sono retti con consumata maestria sì da creare il realismo della vicenda senza cerebralismi respingenti ma con pathos lirico che si fa accettazione senza riserve del mondo rappresentato. Nel II atto un fantasmagorico gioco di luci su immensi volti di clown accentua la drammaticità del dramma, cui sottrae i connotati di una rappresentazione rievocativa, per consegnargli quelli del momento vero della storia di ciascuno nel tempo e nel luogo dove esso si compie.
A tanta lussureggiante regia risponde magnificamente un cast di altissimo livello. Eccelle tra tutti Amarilli Nizza (Nedda). Irretita tra il prorompente desiderio adulterino e il tormento della propria irriconoscenza, esprime nel I atto la sua ansia di libertà nella splendida canzone Stridono lassù, liberamente, cantata con la levità degli augelli assetati di azzurro e con una gestualità che dà sostanza visiva e intensità poetica al loro incessante vagare per le vie del cielo, sfidando il vento, le tempeste e il sole cocente. Un’ansia di libertà che nel II atto la conduce verso la morte quale ultima e unica scelta catartica che possa liberare il personaggio dalla gabbia dell’essere e gli consenta di vagar per l’atmosfera, seguendo un sogno, una chimera fra le nubi d’or. Sovrana prova di maturità, resa con avvenenza, intensità espressiva e lirico erotismo. Rubens Pellizzari (Canio), ha esplorato senza eccessi gigioneschi la dolente parabola del Pagliaccio-Canio raggiungendo l’apice della sua interpretazione nel canto rassegnato dell’interprete chiamato a tramutare in lazzi lo spasmo e il pianto, in smorfia il singhiozzo e il dolor, e ridere del suo stesso dolore. Scenicamente eloquente il suo assassinio di Nedda - Colombina e di Silvio, con la finzione dell’atto come Pagliaccio, e con le pugnalate vere come Canio.
Finzione e realtà si compenetrano. La Commedia è finita!
Alberto Mastromarino, navigato interprete di tanti ruoli baritonali, ricchissimo nelle vesti del Prologo, ha saputo trasmettere il Manifesto verista con qualche accenno forse eccessivo al suo ruolo di girovago commediante. Così il suo Un nido di memorie, continuando nei meandri di un sermone dottrinale, ha perso tutta la intensità del raccoglimento lirico richiesto dal canto sorgivo dalle profondità dell’anima. Quale Tonio invece ha reso perfettamente il personaggio nella sua laida malvagità e lurida lussuria. Una menzione merita Devid Cecconi (Silvio), che con intonazioni perfette ha descritto un contadino semplice, non arrogante, non spavaldo ma sinceramente innamorato di Nedda, colpevole solo di un amore, sulla cui ingenuità si schianterà il delirio cieco di Canio.
Eccellente e perfino commovente la Direzione d’Orchestra di Julian Kovatchev. Il preludio e l’interludio sono stati i momenti più ispirati. Il lugubre suono dei corni del preludio al Prologo sul tema del Ridi Pagliaccio, suono lungo e sommesso, annuncia l’imminenza della tragedia, subdola e strisciante, quale evento simulato. Nell’interludio il tema dominante diventa invece quello del Prologo, affidato agli archi in una melodia mesta appena addolcita da soavi arpeggi. Una orchestrazione sobria, puntuale nel descrivere i momenti più convulsi e concitati dell’opera, attenta a non cadere nel roboante e chiassoso, ma anche a sottolineare i momenti di raccolto lirismo come nel duetto di Nedda e Silvio. Folgorante e impetuosa nella ripida scala di note discendenti che accompagna i protagonisti negli abissi della morte e del nulla.