mercoledì 22 aprile 2009

ROMA Teatro ARGENTINA
Macbeth
di William Shakespeare

Contrastata regia e intensa interpretazione di Gabriele Lavia
Compito immane quello di poter interpretare e recitare un’opera immensa e complessa come il Macbeth di Shakespeare. La complessa esplorazione psicologica dei personaggi, la loro collocazione nello spazio-tempo, il ritmo della narrazione impongono capacità di analisi e di sintesi del testo, di duttilità e di rigore nella sua traduzione in azione scenica, solo di rado registrate tra i grandi interpreti italiani. Gabriele Lavia straordinario lettore e interprete shakespeariano ha dato prova una volta ancora del suo coraggio e del suo talento, pur se forse il suo Macbeth non raggiunge la statura del suo più recente Misura per Misura, o del suo meno recente Amleto.
Forse la scelta poco condivisibile della sua regia è l’aver ingabbiato l’opera nello schema psicologico della tragedia dell’ambizione, allo stesso modo in cui Otello è la tragedia della gelosia e Re Lear la tragedia della ingratitudine filiale. Così facendo le sommità dell’opera vengono smussate, le molti componenti delle sfumature psicologiche vengono enormemente ridotte, e la tragicità della vicenda umana di Macbeth e di Lady Macbeth gravemente depauperata della sua universale validità.

Nel Macbeth l’ambizione c’è ed è centrale. Lo studio di essa è così attento e la sua rappresentazione così drammatica che il tema si carica di risonanze cosmiche. Per il loro peccato di ambizione Macbeth e la sua Lady assumono dimensioni mitiche, rinviando finanche ad Adamo ed Eva, al loro peccato e alla loro sacrilega trasgressione. Ma sono proprio tali rinvii a problematiche più complesse e universali a confermare che l’identificazione del significato ultimo del Macbeth con l’ambizione del suo protagonista riduce grandemente la immensa portata dell’opera. Nella quale s’intrecciano e si rinviano in un complesso gioco di specchi temi come l’amore, la solitudine, la sterilità, la paura, l’angoscia e sopra tutti il Male. Amoroso è infatti il rapporto tra i due protagonisti, che può portare e porta alla corruzione morale e al disfacimento fisico. Totale e allucinante è la loro solitudine, cui pervengono uscendo dalla appartenenza a una comunità attraverso il cunicolo della trasgressione. Solitudine resa ancora più cupa dalla sterilità coniugale. Nelle scene finali Macbeth fiaccato dalla paura è come braccato, Lady Macbeth dopo la angosciosa follia espressa dal sonnambulismo trova rifugio nella dissoluzione di se stessa con la morte, che Lavia individua nel suicidio. Ma sopra tutti domina il tema del Male. Un Male seguito passo passo nel suo cammino distruttivo, analizzato nella sua natura, nelle nefaste conseguenze, nelle reazioni che suscita, negli strumenti di cui si avvale per dominare il mondo e inondare della sua iniquità l’intera vicenda umana: dalla ambizione all’inganno, dalle allucinazioni di Banquo alla follia del sonnambulismo.

Si è di fronte a una rappresentazione agghiacciante, a un incubo che pervade l’intero dramma. Nel Macbeth il Male del mondo assume la forma tangibile. Esso comunica paurosamente le potenzialità negative che animano l’animo umano, illumina le forze tenebrose che scatenandosi possono produrre l’orrido meccanismo e l’angosciosa prigione nella quale ciascuno può imprigionare se stesso.

Ma appunto perché indagato nella sua essenza e in relazione a tutti gli altri sentimenti e forze vitali, il Male non rimane tema fine a se stesso. La sua analisi e rappresentazione diventano analisi e rappresentazione della vita colta nella sua drammaticità, nel sue evolversi quale continuo conflitto, come campo di battaglia di opposti che si scontrano nel perenne gioco delittuoso che avviluppa e soggioga l’intera condizione umana. La conflittualità, la contrapposizione violenta di forze interiori, sono pilastri strutturali su cui tutta l’opera poggia saldamente, ogni tema contenendo il suo contrario, ogni episodio essendo vissuto con inesorabile ambiguità e lacerazione. Come il Male lotta contro il Bene, così il Cielo è contrapposto all’Inferno, la natura contrapposta alla non-natura, il giorno alla notte, la luce alla oscurità, il paesaggio esterno al’interno del castello, la giovinezza alla età adulta, la realtà alla allucinazione, gli uccelli della notte a quelli del giorno. “Il bello è brutto e il brutto è bello” annunciano le streghe già dalla prima scena del primo atto.

A tanta dovizia di sollecitazioni, a tanta complessità di temi la regia di Lavia risponde in forma discontinua. L’incubo della tragedia di una umanità sguarnita e indifesa si riverbera correttamente nella scenografia dominata dalla atmosfera buia che avvolge la scena ininterrottamente con persistenti bagliori di luce rossastra. La percezione della sua immanenza si estriseca nella azione senza ristoro, nel linguaggio senza pause, nei costumi senza veli. Laddove l’unica luce bianca che appare è traballante come lo spirito di Macbeth che la ripara come riparazione di se stesso, laddove la polvere del palcoscenico riproduce il sentiero “polveroso della morte” e anticipa la desolata meditazione di Macbeth dopo la fine della sua Regina, laddove la candela al proscenio rinvia alla caducità del tempo e del suo scorrere inesorabile e inarrestabile, così il ritmo estremamente accelerato della dizione, quasi a scioglilingua, priva lo spettatore della sublime parola poetica di Shakespeare e lo distoglie dalla comprensione della successione degli eventi e delle modulazioni degli animi. Così la caratterizzazione del suo personaggio in bilico tra idiozia cosciente e infermità mentale, lo sottrae a quella sublime tragicità correttamente colta da Verdi nel Re di Scozia e tradotta nel vertiginoso assolo “Pietà, rispetto, amore, …, non spargeranno d’un fiore la mia canuta età”.

La interpretazione dello spazio e l’interpretazione del personaggio di Lavia, inoltre, oscurano lo sfondo forse più pregnante del Macbeth: la concretezza scenica consegnata da Shakespeare al passaggio da una accettazione fideistica della vita e della Storia a una visione razionale e sperimentale, da un mondo poggiato sulla fede e sulla trascendenza a un mondo basato sulla ragione e sull’uomo, dall’idea di un ordine umano che è tale per disposizione provvidenziale all’idea di un ordine che l’uomo conquista per virtù propria. Come fa Malcom. Così nell’opera oscura e sanguinosa in cui il tessuto malefico della natura umana è individuato con angosciosa precisione, nella quale la rappresentazione del Male è lucida e sgomenta, la regia di Lavia non consente di percepire la totalità della accettazione della dimensione conflittuale della vita, né di cogliere i valori positivi esistenti e attivi nel mistero del mondo, seppure precari e difficili da percepire.
Ma dalla distruzione di Macbeth che narra la sua vita come la storia piena di rumori e furori, ma senza significato, dall’obbrobrio della sua decapitazione ed elevazione del suo teschio a vessillo issato su una spada, nasce un uomo nuovo. L’uomo moderno, del Rinascimento, chiamato a vivere e accettare il mondo dell’incertezza e del dubbio, cosciente tuttavia delle sue risorse che lo sottraggono alla predestinazione. Una accettazione che è l’elemento positivo e costruttivo, creativo e consolante di un’opera altrimenti disperata.

Ma forse questa è la visione esistenziale di Lavia, lontana da quella più illuminata e rigeneratrice di Shakespeare.