venerdì 26 febbraio 2010

TEATRO GHIONE

La Bisbetica Domata
Festoso e fastoso inno all’Amore

Scintillante messa in scena de La Bisbetica Domata, tutta colori, costumi sgargianti, luci calde e sensuali, azioni sceniche rutilanti, danze d’epoca, recitazione accattivante ed efficacemente descrittiva, stormo di campane, rumori di scena che pennellano lo stupendo mosaico, preludi o interludi di musiche raffinatissime con archi e strumenti a plettro. Uno spettacolo che nella successione rapida delle azioni sceniche, nei travestimenti, nei cambi d’abito e di scena, nella varietà delle figure mimate quale il galoppo degli sposi dopo il banchetto nuziale, nelle riprese musicali di intensa poesia derivate dalla celebre marcetta delle Nozze di Figaro o nelle riprese pittoriche, il bacio finale degli sposi sullo sfondo e il Bacio di Hayez, diventa un turbine incessante che dal palcoscenico migra verso la platea si che lo spettatore è come purificato da una lavacro ristoratore, e sottratto agli affanni è consegnato alla soave leggerezza di un incanto inatteso.
Questa è la Bisbetica, festoso e fastoso inno all’Amore, che il Teatro Ghione ha saputo offrire al pubblico insolitamente partecipativo con risate di cuore e diffuse, applausi a scena aperta ripetuti e convinti, esplosione di entusiasmi alla fine. Spettacolo di grande levatura e godibilissimo, che sarebbe insano perdere.

Il merito va riconosciuto a tutta la troupe di attori e a tutte le maestranza del teatro. Ma va primariamente ascritto alla regia di Caterina Costantini, la quale ha dato prova di saper condurre con mano ferma una compagnia di attori di diverso spessore e percorso professionale. La sua regia è riuscita a dare a ciascuno il suo ruolo e a ogni ruolo la giusta ponderazione nella complessa vicenda della Bisbetica, elevando Caterina e Petruccio, i due protagonisti, sulla pedana di tutti gli altri personaggi che vivono di loro e da loro sono ispirati. Il padre di Caterina, Battista, e la sorella, Bianca, i pretendenti e spasimanti di Bianca con relativi servitori e i servitori di Petruccio, sono solo molecole nell’universo maestoso e solenne dei due protagonisti che da essi e dalle loro descrizioni ricevono radiazioni di luce che illuminano le colorazioni cangianti del loro essere e del loro divenire. Una regia di alta levatura, merito di pochi e non da poco. Tuttavia nell’estrosità della vicenda già ricca di personaggi e situazioni grottesche, Costantini aggiunge contaminazioni da avanspettacolo cui è difficile aderire. Se Petruccio giunge alle nozze con Caterina in abiti logori, bizzarro monumento e rappezzato arnese, è difficile cogliere il significato della scelta di aggiungere agli abiti che disonorano il suo rango, anche uno stato di ebbrezza non sazia che lo spinge a bere dal calice dell’altare e sull’altare addormentarsi russando. Una concessione di ilarità di grande presa ma che impallidisce la figura di Petruccio che è sì un diavolo, un vero diavolo, un bruto palafreniere, ma non certo un ubriacone. Difficile da capire ancora come nella cerimonia nuziale non si sia ripreso il racconto che Shakespeare affida a Gremio, uno dei pretendenti di Bianca, con le bestemmie e gli schiaffi e il capitombolo del prete nel raccogliere il messale caduto, e si sia privilegiato una parodia di scena nuziale, dominata dalla fatuità del prete, dalla sua voce stridula e dalle sue movenze da omosessuale. Eppure il gioioso stormo delle campane che accompagna la cerimonia, e la croce bianca che si disegna sul fondo sembrerebbero riprendere la sacralità di una cerimonia e un di un vincolo, dissacrati non dalla fatuità del prete o dalla ebbrezza di Petruccio, ma dal suo comportamento blasfemo.
Difficile appare anche condividere la scelta di affidare a una attrice di colore il personaggio di Bianca. Le note della regia spiegano che Bianca è in realtà un animo oscuro, giusto contraltare alla fragilità fisica della sorella. Eppure Bianca, la dolce bellezza, personaggio assai marginale nella narrazione, è tutta libri e strumenti musicali e in quel poco tempo che è in scena si sottomette umilmente alla volontà al padre, timidamente implora la sorella di non usare verso di lei i modi che s’usano per una serva o una schiava, e ingenuamente si chiede se esista una scuola dove s’insegna a domar la gente. Frasi e atteggiamenti che non rivelano nulla di oscuro ma un candore ingenuo e inconsapevole, pallido di un pallore stridente col fuoco vulcanico di Caterina.
A tali osservazioni che riguardano la interpretazione scenica della Bisbetica, occorre aggiungere una osservazione che attiene alla interpretazione culturale della commedia.

La Bisbetica non è né solo spensieratezza, né solo esaltazione del grottesco, né opera buffa. Pur nel sapiente connubio con la leggerezza e la spensieratezza essa è la riflessione succhiata dal miele della dolce filosofia su alcuni degli archetipi caratteristici della condizione umana: il rapporto uomo-donna e il rapporto di ciascuno con la Storia. Il rapporto di ciascuno con la Storia e le manipolazioni delle sue verità, la Storia e le violenze cui essa lo sottopone in un continuo mutar di forme: la fame, il sonno, l’incuria, l’apparente ripudio della ricchezza. Forme tutte ipocritamente finalizzate al bene. Una riflessione sul rapporto uomo-donna nelle innumerevoli varianti col quale esso si manifesta nell’incessante farsi delle culture e delle coscienze. Un rapporto che il tempo ha trasfigurato, grazie a un florilegio ininterrotto di metamorfosi e mutazioni di costumi quasi sorprendenti trasposizioni metateatrali. Un rapporto inesorabilmente immerso nel portentoso dinamismo nel labirinto della vita, nel quale ognuno lasciandosi alle spalle la palude per tuffarsi nelle profondità dell’oceano apprende il proprio ruolo e cerca di recitarlo con convinzione ed efficacia. Un ruolo dapprima respinto con tempesta di clamori insopportabili, con caparbietà e isterismi, ma infine accettato per vivere in armonia con l’esistenza e potersi abbandonare con passione e pienezza alle pulsioni dello spirito. Accettazione che dopo lo sforzo beffardo di conservare la propria indipendenza di intelletto e di azione, diventa ineluttabile e spesso devastante se impone la rinuncia parziale alla propria personalità, come nel finale della Bisbetica.
In tale luce la bisbetica Caterina, lungi dall’essere l’erinni contemporanea, scontrosa e testarda, è la semplificazione della forza indomita delle donne di resistere alle violenze e prepotenze di cui sono vittime. Figura infinitamente sola nel duello sfrontato e audace con chi vuole sottometterla. Infinitamente umano il suo tentativo di reagire col carattere scorbutico, caparbio e terribilmente linguacciuto all’avidità di ricchezza e potere di Petruccio, gentiluomo girovago, uomo del destino, educatore determinato, repressore di ogni originalità e libertà, giustiziere di qualunque diversità. Ma la scontrosità di Caterina arma originale di difesa contro tanta protervia, non è pagante nei confronti della ineluttabilità della esistenza. Ineluttabilità elevata al parossismo della predestinazione, che la sorella Bianca percepisce distintamente pur se forse inconsapevolmente. La Bisbetica è dunque un viaggio disperato e un po' grottesco nella sostanza di tale predestinazione esemplificata nell’eterno conflitto uomo-donna. Nel suo viaggio in giro per vedere un po’ di mondo, lungi dal tetto natio, Petruccio incontra Caterina, predestinata quale sua sposa e sua preda da addomesticare. Se Caterina è la fanciulla bisbetica e capricciosa, ma vittima predestinata, Petruccio è l’avido gentiluomo che utilizza il proprio potere come terapia. E nel loro intreccio dal tono comico e farsesco, nei loro furibondi contrasti verbali, nel loro rintuzzarsi serrato di battute, si materializza la potenza di tale conflitto, esemplificazione dell’ineludibile conflitto tra le diversità di sesso, di ricchezza, di intelligenza. Un conflitto cui il ricco gioco dei travestimenti conferisce rifrangenze ottiche e trasforma in finzione e illusioni soggettive. La finzione: sudario che avvolge tutti e a tutti sottraendo la propria identità li relega nel sottile diaframma che distingue l’essere dall’apparire, la verità dalla falsità, la pazzia consapevole dalla furbizia inconsapevole; e le illusioni soggettive di ognuno di perseguire il proprio obiettivo credendo di possederne gli strumenti idonei: chi il potere, chi il denaro, chi l'inganno, chi l'umorismo.
Un conflitto dunque tra due giganti della letteratura mondiale, che la lettura della Costantini pare ridurre solo a un diverbio amoroso, a un sottile gioco della seduzione, allegro e grottesco.
Se la regia appare non condivisibile in alcune scelte, nulla si può eccepire alla quasi totalità degli interpreti. Se si esclude la giovane Fatima Ali, Bianca, del tutto fuori dal personaggio nella lingua, nella dizione, nella recitazione, a tutti gli altri va riconosciuto un impegno, una fluidità nelle migrazioni da un personaggio a un altro, un dominio della voce ora chioccia, ora greve ora irridente, meritevoli di ogni lode. Sopra tutti svetta inconfondibile la perfetta interpretazione di Selene Gandini, Caterina.
Selene Gandini è giovane ma non è una giovane promessa: è il distillato di un’alta scuola di recitazione ormai capace di proporre nuovi modelli interpretativi. La sua interpretazione della capricciosa Caterina è una interpretazione da manuale. Lungi dalle auliche, pavoneggianti letture di attrici ben più affermate, lungi dal conferire al personaggio una connotazione puramente simbolica e intellettuale, quasi antropomorfica degli isterismi caparbi di Caterina, coniuga con sapienza scenica la simbologia con la umanità vibrante e sofferente di una creatura che è sola contro uno stuolo di uomini avidi di denaro, di potere, di sesso. La personalità di Caterina non è affidata solo alle tante sfumature della voce, ma è resa con la totalità del corpo, dei pugni e dei piedi che fiondano l’aria, con l’incedere ora svelto e nervoso, ora falsamente claudicante, ora lento e maestoso. Ineccepibile l’aderenza del suo gesto alla parola e della parola alla vicenda, guidata sempre dalla naturalezza e mai dal piacere di captare la benevolenza del pubblico. Autentico specchio della natura capace di mostrare al vizio la sua immagine e alla virtù il suo volto. Garbata pur nella veemenza dei momenti di isterismo e litigiosità, morbida e sobria nelle intonazioni della voce e nella successione dei movenze nella recitazione dell’ultimo, lunghissimo monologo,” Vergogna, vergogna” lanciato alle altre mogli e donne, iniziato come leggendo un testo sacro e via via recitato, quasi sermone appreso a memoria dopo il leggerlo e rileggerlo. Una Caterina quella della Gandini che specialmente nel finale supera le interpretazioni precedenti per la rassegnazione non amara con cui prende coscienza della sua identità e del suo ruolo nella società. Ruolo che accetta devotamente, creando anche con il canto una atmosfera lieta e gioiosa, razionale e ottimistica, senza tralasciare tuttavia né alcuni toni malinconici né l’invito alla meditazione sulla evanescenza e aleatorietà della felicità umana.

venerdì 5 febbraio 2010

AL TEATRO MASSIMO di PALERMO

NABUCCO

La schiavitù di un popolo quale emblema di una identità perduta

Ogni riferimento alla preghiera dolente e intensa del Va’ pensiero, porta al Nabucco e solo al Nabucco. Ispirata al Salmo biblico nel quale sulle sponde dell’Eufrate il popolo d’Israele in cattività eleva struggenti preghiere perché siano restaurati il proprio tempio e il proprio regno, la preghiera troverà eco estatico tra gli Italiani oppressi dalla dominazione austriaca. Traducendo semplicemente e magnificamente l’esperienza dolorosa di un popolo oppresso e la sua insopprimibile aspirazione alla libertà, quel canto sublime travalicherà il tempo del Risorgimento e con sommo magistero musicale continuerà a richiamare l’atroce perversità delle occupazioni che alcuni popoli impongono ad altri popoli negando loro identità nazionale e dignità di uomini. Sintesi atipica, tocca ancora oggi e ancora più a fondo tanta umanità che umiliata nella identità e dignità cerca il riscatto con atti e forme che raggiungono la follia distruttrice.
Ma ogni esplorazione del Nabucco ristretta al Va’ pensiero sarebbe amputata e illeggibile senza riferimenti a una verità di cui il testo di Solera è grondante e a cui la musica di Verdi dà una universalità perentoria, trasfigurazione del proprio tempo nel clima della cose eterne. La verità inoppugnabile e solenne della identità nazionale e individuale che è perduta da chi è in schiavitù o in schiavitù cerca di tenere uomini e popoli.
Alla luce di tale verità si leggono i comportamenti dei personaggi del Nabucco: la tragica e dolente Abigaille creduta figlia del Re di Babilonia Nabuccodonosor scopre disperata di essere una schiava; Fenena figlia del Re innamorata dell’ebreo Ismaele rinnega la sua razza e la sua religione e si converte all’ebraismo divenendo essa stessa ebrea; il Re creduto morto in battaglia è invece vivo, richiede per sé la corona ed esige l’adorazione dovuta all’unico dio. Colpito dal fulmine scagliatogli dal Dio degli Ebrei perde con la corona, la ragione e tutto il senso della sua identità personale. Riemerso dall’abisso della follia recupera il suo spirito ma sotto una nuova amara identità. Non è più Re, ma soltanto padre. Un padre afflitto che invoca presso Abigaille già sua schiava e ora Regina la liberazione della figlia Fenena ormai ebrea condannata. La verità della identità nazionale e individuale, perduta e ricercata, è dunque quella che Solera con l’incanto di un libretto poetico affida a Verdi e che Verdi traduce nella sontuosa magnificenza della sua musica. Una musica nuova, gladiatoria, impetuosa, corale, senza riccioli e sospiri, senza frizzi e ciprie settecenteschi, la cui potenza innovatrice si manifesta immediatamente nella sequenza che accosta la trascinante Sinfonia all’imponente e dolente affresco corale su cui si leva il sipario.
La Sinfonia di esordio oppone con semplicità elementare, l’elemento sacro – rappresentato dal suono iniziale degli ottoni- all’elemento marziale dopo l’interpolazione lirica del «Va’, pensiero». Incendiato dal ritmo feroce del tamburo e dai colpi della grancassa possenti e incalzanti sino alla frenesia, tale elemento si trasforma in un crescendo che rapisce gli spettatori e li tiene come soggiogati fino al levarsi del sipario e all’ingresso nel tempio di Salomone degli ebrei ebbri di angoscia e di terrore. Sul pubblico si riversa allora una tempesta sonora che dà inizio al Dramma della identità nazionale. Dramma vivo, avvincente, che nel suo protrarsi a lungo e nel coinvolgere tutti, raggiunge una tensione etica altissima. Dramma che anticipa quello della identità personale che si esprime in forme alte e vivide nell’esordio dell’atto II di Abigaille che senza speranza e senza pace cerca la verità che racchiude. La sua Aria impervia esprime la tragica dualità del personaggio attraverso il furore incontenibile con cui inizia (Su tutti il mio furore/Piombar vedrete!) e la pietà meditativa con cui si conclude - Piangeva all'altrui pianto,/Soffria degli altri al duol./Ah, qual del perduto incanto/ Mi torna un giorno sol?-. Dramma individuale anche il dramma di Nabucco in bilico tra follia sterminatrice e ragione. Recuperata la quale implora ad Abigaille la salvezza della vita del suo cor!, la figlia Fenena, condannata al genocidio come il popolo ebreo. La scena tra i due protagonisti raggiunge lo stesso vigore distruttivo e avvolgente del confronto rabbioso tra due fiere: l’una “miserando veglio! / ombra del Re”, delirante per il dolore della figlia perduta, l’altra impietosa, assetata di vendetta e di sangue tremendamente minacciosa nell’“Alfin cadranno i popoli/di vile schiava al piè”. E’ il grandioso scontro tra due titani avidi di potere, che si scagliano furenti l’un contro l’altro, nella scoperta della propria vera identità. Schiava serbata al disonore Abigaille, Re senza trono e prigioniero, Nabucco. In tale scontro brillano il genio di Verdi e la sua soverchiante capacità di tradurre in musica e tendere allo spasimo con l’orchestra e le voci la complessa psicologia di due giganti.
Al tema della identità individuale svolto nella scena a due, segue il tema della identità pubblica che si esprime con magnificenza e solennità nel coro del Va’ pensiero e nella seguente profezia di Zaccaria, che ai toni imploranti del coro contrappone la violenza verbale e invettiva del Gran Pontefice alla guida spirituale del suo popolo: Del futuro nel buio discerno…/ ecco rotta l’indegna catena!.../ piomba già sulla perfida arena / del leone di Giuda il furor!. In essa vibra già tutta l’energia necessaria alle metamorfosi finali delle idealità nelle realtà. Nabucco si converte e invoca perdono al Dio di Giuda, Dio verace e onnipossente, ma appena liberata Fenena, ardente di fiamma insolita torna il Re dell’Assiria. Di fronte allo scettro ritrovato di Nabucco purificato dalla superbia che lo aveva spinto a proclamarsi Dio, Abigaille s’avvelena e morente invoca dal Dio degli Ebrei il perdono e da Fenena la promessa di non maledirla. E’ l’ultimo canto nei rantoli della morte di una donna condannata a ignorare per sempre la propria identità, misteriosamente racchiusa in lei come da sempre e per sempre in ogni uomo o popolo oppresso.

Nella ripresa al Massimo di Palermo splendono di luce intensa e rara la Abigaille di Amarilli Nizza, veemente nell’amaro sogghigno a Ismaele da lei amato non riamata, tenera nell’ Aria della parte II “Anch'io dischiuso un giorno / Ebbi alla gioia il core”; intensa nella drammaticità dello scontro con il Re, intensa nella implorazione finale del perdono a Fenena “Su me... morente... esanime... /Discenda... il tuo perdono!../ Fenena!...”. Un magistero di canto memorabile per mobilità del fraseggio, vastità della gamma di accenti, perfetta adesione delle tonalità della voce e della gestualità scenica al dettato del libretto.

Roberto Frontali nobile e attento nel canto, appare tuttavia privo della tavolozza di colori vocali necessaria alla esplorazione psicologica di Nabucco. Tremino gli insani del mio furore…/ Vittime tutti cadranno omai! richiede toni cupi, imperiosi e tremendi ben diversi dai toni pacati, tremuli, intimi richiesti dalla intimità della invocazione in ginocchio del perdono: Dio degli Ebrei, perdono! Dio di Giuda! L’ara, il tempio / a te sacro, / sorgeranno… A un siffatto limite vocale si aggiunge una recitazione generosa ma priva di gestualità, presenze sceniche cangianti, necessarie a dare sbalzo a tutto tondo alle rilevanti metamorfosi umane di una figura altalenante tra l’orgoglio superbo di un Re vittorioso e la pietà di un padre prigioniero e folle, di un personaggio ora Assiro ora Ebreo ora di nuovo Re degli Assiri nella continua ricerca della sua identità.
In forma smagliante per duttilità, emissione e autorevolezza scenica Roberto Scandiuzzi, Zaccaria autentico Gran Pontefice degli Ebrei, maestoso e solenne nel canto della profezia che preannuncia la fine della schiavitù degli Ebrei e la distruzione di Babilonia. Il suo cavernoso esordio della profezia assume tutta la potenza della voce divina che sovrastando le vicende e le ambizioni degli uomini, parla dai nembi del cielo per imporre la Sua Sacra Legge. Il suo canto dà tangibilità all’intervento del soprannaturale, incarnato dal fulmine che rende folle il protagonista, mentre il suo ultimo monito, “E Servendo a Jehovah, sarai de' regi il re!...” è cantato con una soavità che rende palpabile la possibile armonia politica del mondo solo nell’ascolto della voce di Dio.
Felice sorpresa la figura di Ismaele del giovanissimo Thiago Arancam, pur se nel Nabucco Verdi è stato per la voce di tenore assai avaro di recitativi, arie o cabalette e Solera ha descritto un personaggio marginale e di lieve appoggio. Sacrificata in una parte assai povera la splendida voce di Anita Rachvelishvili, reduce dai trionfi di Carmen alla Scala. Eppure il suo “Oh, dischiuso è il firmamento! / Al Signore lo spirito anela.. dopo la cupe e lugubre marcia funebre che la precede consegna una memorabile estasi esaltante di lirico rapimento mistico.
A guidare tale cast di alto livello assieme all’orchestra del Massimo c’era Paolo Arrivabeni, al quale va riconosciuto il merito di aver saputo costruire un legame stretto ed eloquente tra la irruenza della musica e la solidità del libretto, tra le colorazioni dell’orchestra, ottoni e strumenti a percussione in particolare, e tutti i personaggi in scena, non escluso il superbo coro diretto con maestria senza eccezioni da Andrea Faidutti. Eccezioni possono essere forse fatti al M° Arrivabeni nei tempi scelti per la Sinfonia. Tempi assai più consoni a una meditazione perpetua, che non al deflagrare di azioni e reazioni frementi di cui è intessuta tutta la partitura.

Ultima considerazione merita assolutamente la regia di Saverio Marconi. Una impalcatura scenica fatta essenzialmente di due componenti mobili: un rotolo immenso tarsiato da caratteri sumeri, simbolo della storia di quel popolo e della Storia universale, e delle gradinate mobili che rappresentano l’interno del tempio o gli orti pensili. Straordinaria l’intuizione dell’emergere del popolo ebreo dalla cappa del rotolo prima di intonare la celebre preghiera. La dolente invocazione “infondere al patire virtù” che in essa vibra, si libera così dalla temporalità degli avvenimenti dell’opera per assurgere a messaggio universale senza luogo né tempo.
Risultati eccellenti senza eccessi di risorse. Merito della direzione artistica e della sovraintendenza del Teatro Massimo che hanno saputo inaugurare la stagione teatrale con una sagace e attraente distribuzione dei ruoli a un cast altissimo in un’ opera immensa, senza nulla togliere al rigore nella gestione delle risorse disponibili. Trionfo meritato e tributato senza riserve.
fm.mirabile@libero.it