martedì 25 dicembre 2012

Il difficile volo di una farfalla dalle ali tarpate

MADAMA BUTTERFLY A SALERNO



La straordinaria bellezza del libretto della tragedia di Madama Butterfly splende nella semplicità e linearità della sua trama. Non vi sono guerre, non vi sono rivalità e loschi intrecci, non vi sono ambizioni né lotte di potere, non vi sono insani desideri di vendetta, non vi sono travestimenti o migrazioni di personaggi. Tutta l’opera incanta per il racconto delle passioni elementari di una fanciulla e della sua tragica evoluzione verso la maturità di donna e di madre. È appena una fanciulla quindicenne quando appare in scena, innamorata, avvezza a tenerezze sfioranti e pur profonde come il ciel, come l’onda del mare! ma ignara della natura avventuriera del suo promesso sposo. È una fanciulla devota agli dei giapponesi, ma per essersi convertita in segreto al Dio del suo promesso sposo, è rinnegata e maledetta dallo zio Bonzo: All’anima tua guasta, qual supplizio sovrasta! E’ una madre innamorata che attende suo marito, ma scopre il tradimento e l’inganno, affronta il dolore del disonore e quale forma estrema di devozione al loro bimbo, gli dona la vita ultimo e solo dono residuale, perché possa andar di là dal mare senza che gli rimorda ai dì maturi il materno abbandono. La storia, tutta la sublime storia di Butterfly, è qui, in questa semplice tragedia. Eppure la ricchezza melodica della musica di Puccini e la rara bellezza del libretto di Illica e Giacosa, trasfigurano una fragile fanciulla innamorata e primitiva in una figura femminile monumentale. Nella solitudine del dolore e dell’attesa, parlando il linguaggio delle passioni elementari quella fanciulla raggiunge la vertiginosa altezza di una eroina omerica, la quale pur attorniata dalla violenza sotterranea, subdola, annientatrice, dei suoi parenti, dei suoi aspiranti, del suo stesso sposo, irradia un senso di pacata accettazione del suo destino: l’essere povera, l’essere orfana, l’essere rinnegata. Io seguo il mio destino e piena di umiltà, al Dio del signor Pinkerton mi inchino. È mio destino. Appare tutto nuovo, eppure il tutto è la medesima donna primitiva immutabile nella sua naturale vocazione al donare amore allo sposo e vita al proprio bimbo, come ineludibile disegno del destino.

Per far vivere una tale tragedia in cui tutto è canto e mimica, occorrono interpreti pregni di una intensa vita interiore, meditata e raccolta.

In tale regale figura, l’identificazione di Amarilli Nizza (Cio-cio-san) è totale. La consuetudine con il personaggio le consente di arricchirlo di rifiniture psicologiche, sì che gli stessi intimi moti dell’animo si colgono con una immediatezza che rifiuta ogni falsità teatrale e sono consegnati allo spettatore nella loro incontaminata verità. Alla recitazione studiata nei gesti, perfetta nella postura e nella espressione del volto e negli sguardi, corrispondono il dominio e la adesione alla parola scenica e un canto che è un pantheon di preziosità tecniche. In esso c’è spazio per il parlato, per il grido, per il legato strumentale, per il fraseggio, per l’eloquenza della pausa. Basta ripensare al suo Un bel dì vedremo bissato a furor di pubblico, per cogliere la purezza, l’agilità, la potenza espressiva che caratterizzano il suo strumento privilegiato. Incantevole il si bemolle di Io con sicura fede l’aspetto, le braccia distese in un abbraccio universale, il senso di un dolce, fidente abbandono alla grazia del Dio cui si è convertita. Autentica attrice nella simulazione delle voci e dei gesti del magistrato e del marito nella domanda dell’uno e nella risposta dell’altro sul perché dell’abbandono della moglie. Travolgente, dopo il colpo di cannone nel porto, nel credere che lui sia tornato a consacrar il trionfo del suo amore e della sua fede: la mia fé trionfa intera, ei torna e m’ama! Il finale rannicchiarsi a terra è di una raffinatezza psicologica sublime, il capo reclinato e quasi non più visibile accentua la drammaticità di un sonno presago di morte oltre la quale si intuisce la trasfigurazione della vita. Autentico momento di sublime recitazione, capace di evocare il medesimo dolce abbandono mortale della Santa Cecilia di Stefano Maderno. Straordinario momento di commozione, giustamente sottolineato da uno scroscio di applausi.

A tanta grandezza, a tanta raggiunta maturità di interprete, non corrispondono né un cast periferico, né una direzione d’orchestra né una regia di pari livello.

Difficile condividere le scelte e le note di regia di Lorenzo Amato, a motivo della non corrispondenza del risultato con gli intenti. Dice Amato nel programma di sala: “Abbiamo lavorato per sottrazione scegliendo un allestimento simbolico, allusivo, di sobria eleganza, immaginando di costruire un luogo ideale che fosse capace di proiettare lo spettatore in una scena e che gli potesse consentire di vivere in maniera intima e personale il dramma dei personaggi”. La scena scarna e niente affatto elegante, ha estraniato il pubblico piuttosto che coinvolgerlo, perché le allusioni non potevano commuovere e non hanno commosso. Se il dramma è solo della protagonista, la ragione e l’origine dello stesso sono da ricercare non dentro di lei, ma fuori, nell’ambiente sordido dei sobborghi di Nagasaki, nella opacità del mondo degli Yamadori disseminati in quella trista terra, nella veemenza dei sentimenti di tutti, ai quali fa difetto soprattutto la pietà. Un mondo povero di valori, chiuso in consuetudini ataviche che lo rendono ancora più povero e dal quale la piccola Cio-cio-san cerca di rifuggire accettando di essere rinnegata e dileggiata. Questo mondo esterno dal quale una farfalla cerca di volare, la regia lo nega allo spettatore e lo sottrae alla stessa protagonista. La quale durante l’esecuzione dello stupendo Coro a Bocca Chiusa, è lasciata ferma, in ginocchio nello stile giapponese e con le spalle rivolte al pubblico, e dunque inespressiva, laddove tutta la capacità coinvolgente del coro sta nel permettere alla protagonista di vivere il proprio sogno nel silenzio del canto ma nella eloquenza dei gesti. Un duetto musica - recitazione drammatica che viene tarpato con la eliminazione dell’azione scenica dell’interprete e, fatto ancor più desolante, viene separato dal successivo bellissimo interludio che lo segue. Amato lascia intendere che l’affidare la scena a due danzatori e mimi quando il sipario si rialza e viene eseguito l’interludio, è motivato dal voler “dar vita visivamente alla confusione di illusione e verità che si crea nella mente della protagonista”. Una lettura dalla quale fanno dissentire tutta la evoluzione psicologica della protagonista e la sequenza degli accadimenti. L’attesa con sicura fede di Butterfly non è illusione, non è percezione distorta di un moto dell’animo, è verità sofferta; l’arrivo della Abramo Lincoln non è illusione, è verità che le fa gridare con somma gioia il trionfo della sua fede e del suo amore. Il Coro a Bocca Chiusa e l’interludio successivo sono il modo con cui Butterfly vive intimamente l’attesa che si fa lunga ed estenuante, non una estraniazione nella illusione di un evento impossibile. Complice in tale manomissione indebita anche il M° Alberto Veronesi, il quale raggiunge forse nella accettazione della interruzione di tale stupendo intermezzo musicale il peggio della sua sonnecchiante direzione. Ma non è questo il solo momento. Decisamente infermo nella conduzione dell’orchestra durante il sogno di Butterfly Un bel dì vedremo. C’è da chiedersi quale senso abbia un’orchestra che pur chiamata ad eseguire la stessa melodia del canto della protagonista, se ne allontana progressivamente fin quasi ad abbandonarla nel momento più alto in cui elevandosi sopra la paura di Suzuki afferma la sua determinazione alla attesa con sicura fede? Analogamente latitante è apparsa tutta l’orchestra nel canto che segue l’arrivo nel porto della nave da guerra, nel momento in cui a Butterfly dopo il rifiuto dell’idea stessa di tornare al triste mestiere di ghesha che porta al disonore, l’udire il cannone del porto appare consacrare il trionfo della sua fede e del suo amore. Decisamente più efficace e comunicativa la conduzione d’orchestra durante il duetto dei fiori, nell’esecuzione del Coro a Bocca Chiusa e nella magnificenza dell’aria finale con onor muore. Una direzione d’orchestra assai discontinua dunque e certamente lontana dalla capacità di illuminare con i colori dell’orchestra la stupenda evoluzione di una piccola fanciulla emersa come bocciolo dai sotterranei di un mondo sordido, la quale nell’amore per il suo sposo e nel senso di maternità incontaminato dalla sua giovane età raggiunge l’altezza incommensurabile di una delle più alte figure femminili dell’intera storia dell’opera lirica. Una altezza cui sola e da sola è riuscita a pervenire Amarilli Nizza, mentre assai distanti e in certa misura superflui sono rimasti gli altri interpreti.

La Suzuki di Natasha Verniol è apparsa molto contenuta, quasi pigra nella gestualità, come nella scena che precede la notte di nozze. Eppure la voce era bella, vivida di un colore pastoso ben adatto al personaggio, il cui disegno è tuttavia mancato. Discorso appena diverso per lo Sharpless di Carlo Striuli. Il cantante possiede uno strumento vocale non privo di valore, tecnicamente usato con accettabile fonazione. Ma la mancanza più rilevante è stata la non trasformazione del personaggio in individuo. Il ruolo di Sharpless è un ruolo difficilissimo pur nel modesto peso specifico che gli è assegnato. Sharpless è il compagno di sollazzi del fatuo Pinkerton , ma di lui è assai più sensibile. Solo all’udire Butterfly e senza vederla, intuisce infatti che Sarebbe gran peccato le lievi ali strappar e desolar forse un credulo cuor. Nell’atto II, in tutta la scena della lettera, Sharpless deve provare non poche capacità di introspezione psicologica, arti di persuasione e attitudini all’autogoverno delle sue paure e commozioni. Con circospezione deve preparare Butterfly al non ritorno di Pinkerton e suggerirle di accogliere altre promesse di matrimonio. Il colloquio è denso di annunci dolorosi, di scoperte e reazioni inattese, di propositi di morte. In tanta ricchezza di melodie e sfuggenti momenti psicologici l’interprete di Sharpless deve sopratutto recitare, cantando con modulazioni della voce, con emissioni quasi sotterranee per dare verità ai suoi sentimenti di commozione e paura. Lui è l’unico testimone dell’immenso dolore espresso da Butterfly nella prospettiva di tornare a tendere la mano tremante a invocare pietà. È lui che si impegna di comunicare a Pinkerton di essere padre di un bimbo. È lui che da messaggero del non ritorno di Pinkerton si trasforma in messaggero della sua paternità. Personalità complessa e assai debole, che resta confinata ai margini di un racconto denso di pietà se non illuminata da una interpretazione adeguata. Illuminazione che è mancata. Inadeguata è stata anche la interpretazione di Piero Giuliacci (Pinkerton). Pinkerton è un personaggio che eccelle per la sua ostentata fatuità nel descriversi: la vita ei non appaga se non fa suo tesor i fiori d’ogni plaga, nella irrisione del corteo dei parenti di Butterfly, ma sa cogliere con trasporto sincero e delicata dolcezza la paura, la stolta paura della piccola Butterfly nella notte delle nozze e sa accompagnarla nell’estasi della contemplazione del firmamento pieno di stelle. Giuliacci ha cantato con generosità e impegno. Ma il suo Pinkerton non trasmette né avversioni né compatimenti, così inavvertibili essendo la sua fatuità come la impaziente sensualità della fine dell’atto I. Tutta la ricchezza melodica che la partitura gli assegna pare dissolversi in un forma rituale di canto senza l’intima immedesimazione dell’artista con la psicologia del soggetto.

Angelo Nardinocchi (Il principe Yamadori), Luigi Palmiero (lo zio Bonzo) e Francesco Pittari (Goro), consapevoli che il loro ruolo è più nell’azione che nel canto, caratterizzandosi attraverso essi tutto il mondo familiare e culturale da cui proviene Butterfly, si sono distinti più nell’interpretazione scenica che nel canto. Non da ultimo il coro diretto dal M° Luigi Petrozziello. La funzione del coro in Madama Butterfly è assai lontana dagli empiti eroici, dalle invocazioni patriottiche, dalla superiore attesa di un mondo purificato, ma è soltanto uno degli elementi descrittivi del mondo spirituale da cui proviene Butterfly. Tutta la parte dominante del coro nell’atto I è dedicato alle disquisizioni da cortile se Pinkerton è bello o brutto, se il matrimonio finirà col divorzio oppure no. Temi pettegoli che non richiedono particolari impegni né di canto né di recitazione. Se poi si sottrae al coro tutta la solenne meditazione del Coro a Bocca Chiusa affidata agli strumenti orchestrali, allora il ruolo e l’importanza del coro diventano assai marginali. Tuttavia va riconosciuto come il canto delle amiche nell’entrata di Butterfly, trasmetteva una compostezza serena di un addio da parte di spiriti generosi e sapienti: Gioia a te,dolce amica, ma prima di varcar la soglia volgiti e guarda le cose che ti son care!.

Con tale regia, tale direzione d’orchestra e tale cast era difficile rappresentare una Madama Butterfly superlativa. Se un naufragio non v’è stato il merito è stato di Amarilli Nizza celebrata Butterfly sui teatri del mondo, cui tuttavia sono state tarpate le ali in ossequio a una visione registica invadente e irrispettosa. Forse i registi dovrebbero avere maggiore umiltà nei confronti degli artisti e assecondarli piuttosto che tarparli. Così facendo ne trarrebbero beneficio essi stessi. Ma questo a Salerno non è successo.



lunedì 6 febbraio 2012

Sovrana prova di maturità di Amarilli Nizza, resa con avvenenza, intensità espressiva e lirico erotismo.

VERONA - TEATRO FILARMONICO

PAGLIACCI

di Ruggero Leoncavallo

Identità false e angosce vere nell’irrisolto enigma della realtà e della finzione

Il Verismo nato in Italia dopo il compimento della eroica stagione del Risorgimento, si concentrò non più sui grandi temi della Unità, della Patria, della Indipendenza ma sui temi che la nuova Italia stava evidenziando senza proclami ed eroismi, ma in forma viva e sconcertante. I temi sociali e umani legati all’irrompere della violenza privata in assenza di un ordinamento giuridico certo e funzionante, connessi al dilagare della povertà, all’imperversare di una autarchia facilitata dalla latitanza delle strutture del nuovo Stato Unitario. Temi verso cui si volsero con una attenzione maggiore e una partecipazione più solidale le varie correnti culturali. Nella letteratura operistica, il Verismo ponendosi nel solco della letteratura in prosa e registrando in aggiunta l’insostenibilità della magniloquenza delle orchestre maestose, la obsolescenza del senso metafisico della musica fantastica sorretta da trame mitologiche o sagre nazionali, privilegiò l’uso di libretti fondati su situazioni e personaggi reali, su episodi realmente accaduti in contesti ambientali e di cultura contemporanei. Esso volle tuttavia salvaguardare, come nel Verismo letterario, il principio del distacco assoluto dell'autore, che abdicando al suo ruolo di creatore della vicenda diveniva soltanto un osservatore, scientifico e impersonale. Ma se per la novellistica tale porsi al di fuori del contesto degli eventi narrati aveva senso e credibilità, per la letteratura musicale soffriva di non senso. Come poteva infatti trovare un'adesione "veristica" alla realtà, un genere artistico in cui i protagonisti cantano invece di parlare e i tempi della vicenda sono dettati non dallo scorrere immutabile del tempo, bensì dalle ragioni dell'espressione musicale? E come poteva essere imparziale un compositore chiamato a sottolineare con i temi orchestrali e con le melodie del canto l'espansione intima dei personaggi, se nella realtà ognuno si esprime senza né canto né orchestre? La intrinseca inconciliabilità del verismo letterario con il verismo musicale fu colto correttamente da Leoncavallo, il quale con uno stratagemma arguto fece precedere la sua opera da un Prologo, vero manifesto della poetica verista in campo musicale. Manifesto con cui l'autore intese esporre non solo le ragioni -l’artista è un uomo e per gli uomini scrivere ei deve-, e le fonti della sua ispirazione - al vero ispirarsi, dipingendo uno squarcio di vita- ma anche la fondamentale differenza tra fatti, tra sentimenti descritti e gli attori che li interpretano. Gli uni sono veri perché ispirati alla cronaca di fatti veri: vero l'amore, vero l'odio, veri il dolore, la rabbia, il cinismo. Ma gli attori no! Gli attori sono uomini di carne ed ossa che vestono povere gabbane di istrioni e che al pari del pubblico vivono in un mondo orfano e arcano, privo di leggi e misterioso. Pertanto di essi vanno considerate le anime e non le azioni simulate. Prologo di rara incongruenza teorica e versi assolutamente improbabili ma di sconvolgente bellezza musicale.
Eppure ignorando il Prologo Pagliacci sollecita la riflessione del rapporto tra teatro e vita, tra verità e finzione, tra identità false e sentimenti veri, nel quale il gioco scenico compenetrando i due mondi ne annulla i rispettivi confini. Se infatti nella recitazione si nasconde l'identità, e la maschera che copre il viso nasconde anche l'anima e le sue mostruosità, nei Pagliacci la maschera diviene l'identità stessa del personaggio che nella rappresentazione rivive il proprio stesso dramma. Opera dunque densa di verità che arricchite dalla poesia musicale fanno nascere un capolavoro. Un capolavoro che trasfigura con la bellezza della melodia e la ricchezza della orchestrazione l’infima miseria di un fatto di cronaca nera.
La storia di Canio, teatrante girovago, e della giovane moglie Nedda, è indubbiamente romanzata e trae dalla cronaca solo lo spunto. Sin dall'inizio, il racconto richiama alla meditazione sul difficile rapporto finzione-realtà. Canio sta presentando in paese lo spettacolo della sera quando un contadino burlone, riferendosi a Tonio, torbido e sordido personaggio, gli dice "…, ei solo vuol restare per far la corte a Nedda". Lo sguardo feroce di Canio gli fa morire le parole sulle labbra: "Un tal giuoco, è meglio non giocarlo con me! Il teatro e la vita non son la stessa cosa e se lassù Pagliaccio sorprende la sua sposa col bel galante in camera, fa un comico sermone, poi si calma od arrendesi ai colpi di bastone! Ed il pubblico applaude, ridendo allegramente! Ma se Nedda sul serio sorprendessi, altramente finirebbe la storia, ..! . Una affermazione perentoria che lascia Nedda confusa e impaurita.
Il teatro e la vita dunque non sono la stessa cosa, eppure è proprio ciò che accadrà: la compenetrazione dei due mondi in uno solo. In scena Pagliaccio dirà le parole che Canio avrebbe detto nella realtà, e Nedda nel ruolo di Colombina dirà ad Arlecchino suo amante nella commedia -A stanotte e per sempre tua sarò- le medesime parole pronunciate a Silvio l'amante vero. Sulla scena durante la commedia Pagliaccio le ascolterà come prima Canio le aveva ascoltate fuori scena. E sulla scena ucciderà la moglie, realmente, come avrebbe fatto fuori scena. In tale totale compenetrazione di immaginazione e realtà, falsa identità e angoscia vera, nella sintonia creata tra il pubblico sul palcoscenico e il pubblico in platea, si colgono la originalità incandescente e la potenza emotiva dei Pagliacci, che sviluppa egregiamente il gioco del "teatro nel teatro", di fingere una finzione che tragicamente diventa realtà.
La suggestione scenografica di tale opera nello storico allestimento di Franco Zeffirelli è di una soggiogante bellezza. Come in una cattedrale pullulano nella maestà delle navate e delle absidi personaggi biblici, così nella messa in scena del Maestro sciama la umanità eterogenea e variopinta dei bimbi, delle signore, dei travestiti, dei giocolieri, degli sposi, e dei personaggi, in tre spazi diversi: la piazza arredata con le insegne luminose dei negozi, il palcoscenico della compagnia di girovaghi, i ballatoi e i camminamenti degli abitanti all’aperto nel caldo di metà agosto. Tanta umanità e tanta ricchezza di colori e costumi sono retti con consumata maestria sì da creare il realismo della vicenda senza cerebralismi respingenti ma con pathos lirico che si fa accettazione senza riserve del mondo rappresentato. Nel II atto un fantasmagorico gioco di luci su immensi volti di clown accentua la drammaticità del dramma, cui sottrae i connotati di una rappresentazione rievocativa, per consegnargli quelli del momento vero della storia di ciascuno nel tempo e nel luogo dove esso si compie.
A tanta lussureggiante regia risponde magnificamente un cast di altissimo livello. Eccelle tra tutti Amarilli Nizza (Nedda). Irretita tra il prorompente desiderio adulterino e il tormento della propria irriconoscenza, esprime nel I atto la sua ansia di libertà nella splendida canzone Stridono lassù, liberamente, cantata con la levità degli augelli assetati di azzurro e con una gestualità che dà sostanza visiva e intensità poetica al loro incessante vagare per le vie del cielo, sfidando il vento, le tempeste e il sole cocente. Un’ansia di libertà che nel II atto la conduce verso la morte quale ultima e unica scelta catartica che possa liberare il personaggio dalla gabbia dell’essere e gli consenta di vagar per l’atmosfera, seguendo un sogno, una chimera fra le nubi d’or. Sovrana prova di maturità, resa con avvenenza, intensità espressiva e lirico erotismo. Rubens Pellizzari (Canio), ha esplorato senza eccessi gigioneschi la dolente parabola del Pagliaccio-Canio raggiungendo l’apice della sua interpretazione nel canto rassegnato dell’interprete chiamato a tramutare in lazzi lo spasmo e il pianto, in smorfia il singhiozzo e il dolor, e ridere del suo stesso dolore. Scenicamente eloquente il suo assassinio di Nedda - Colombina e di Silvio, con la finzione dell’atto come Pagliaccio, e con le pugnalate vere come Canio.
Finzione e realtà si compenetrano. La Commedia è finita!
Alberto Mastromarino, navigato interprete di tanti ruoli baritonali, ricchissimo nelle vesti del Prologo, ha saputo trasmettere il Manifesto verista con qualche accenno forse eccessivo al suo ruolo di girovago commediante. Così il suo Un nido di memorie, continuando nei meandri di un sermone dottrinale, ha perso tutta la intensità del raccoglimento lirico richiesto dal canto sorgivo dalle profondità dell’anima. Quale Tonio invece ha reso perfettamente il personaggio nella sua laida malvagità e lurida lussuria. Una menzione merita Devid Cecconi (Silvio), che con intonazioni perfette ha descritto un contadino semplice, non arrogante, non spavaldo ma sinceramente innamorato di Nedda, colpevole solo di un amore, sulla cui ingenuità si schianterà il delirio cieco di Canio.
Eccellente e perfino commovente la Direzione d’Orchestra di Julian Kovatchev. Il preludio e l’interludio sono stati i momenti più ispirati. Il lugubre suono dei corni del preludio al Prologo sul tema del Ridi Pagliaccio, suono lungo e sommesso, annuncia l’imminenza della tragedia, subdola e strisciante, quale evento simulato. Nell’interludio il tema dominante diventa invece quello del Prologo, affidato agli archi in una melodia mesta appena addolcita da soavi arpeggi. Una orchestrazione sobria, puntuale nel descrivere i momenti più convulsi e concitati dell’opera, attenta a non cadere nel roboante e chiassoso, ma anche a sottolineare i momenti di raccolto lirismo come nel duetto di Nedda e Silvio. Folgorante e impetuosa nella ripida scala di note discendenti che accompagna i protagonisti negli abissi della morte e del nulla.

mercoledì 18 gennaio 2012

Roma Palazzo Venezia

ROMA AL TEMPO DI CARAVAGGIO


L'arte come forza espressiva e risolutiva anche in campo etico


Che il barocco, e il barocco romano, non fossero espressione di una retorica vuota di senso e soprattutto di etica mi era da tempo noto. Ma non potevo immaginare che la Roma barocca potesse essere il luogo dove è nata la modernità, e forse anche se non la laicità almeno il relativismo. Pensieri così balzani mi sono venuti in mente visitando la bellissima mostra su “Roma al tempo di Caravaggio” allestita a Palazzo Venezia. Le opere esposte coprono un periodo di ca. 40 anni, attraversati da Pontefici sommi, quali Clemente VIII Aldobrandini, Paolo V Borghese, Gregorio XIV Boncompagni, Urbano VIII Barberini. Con l’Anno Santo del 1600 “il papato cattolico celebrava la riconquista del suo predominio dopo la grande paura luterana”, spiega il catalogo Skira, e Roma “diventava la capitale culturale d’Europa, popolandosi di migliaia di artisti provenienti dall’Italia e dalle grandi nazioni del Vecchio continente, Spagna, Francia, Germania, le Fiandre, i Paesi Bassi”.

Cosa avvenne? Cosa fu? Fu tutto un mescolarsi, un confrontarsi, un sovrapporsi di stili, linguaggi, esperienze, come nella Parigi postimpressionista. Forse più ancora che nel suo pieno Rinascimento, la città divenne una fucina irripetibile nella quale prese avvio quella straordinaria rinascita artistica della Città Eterna, i cui esiti saranno percepiti in tutta Europa fino alla fine del XVII secolo. Eppure non era Roma la città dove era messo a rogo Giordano Bruno e Galileo Galilei veniva condannato per le sue eretiche teorie astronomiche? Sarà pure vero che quella Roma segnata dal potere temporale tridentino fu una città “reazionaria”, ma occorre ammettere che dalla sua vicenda culturale ben distinta da quella politica prese avvio una forma di barocco liberale.

C’è infatti nella mostra di Palazzo Venezia, un quadro, “Susanna e i vecchioni”, opera prima di Artemisia Gentileschi che rappresenta il noto episodio biblico, immerso in una inaspettata e cruda sensualità, tanto da poter essere considerato quasi un evento nella storia dell’arte e del nudo. V’è poi l’“Amore dormiente” di un certo Battistello Caracciolo in cui l’erotismo omosessuale non è meno esplicito dei nudi giovanili dello stesso Caravaggio; opere assai lontane dalla rappresentazione dell’Amor sacro e Amor profano con cui Tiziano aveva riportato in un’aura di idealizzazione purificatrice anche il nudo femminile. Col nudo appare la natura morta, quale il libro legato in pergamena nella tela del sant’Agostino attribuito al Caravaggio o il grande violoncello e il Liuto della Santa Cecilia di Carlo Saraceni. Trattasi di un tema che stravolge la scala dei valori e che elevando alla dignità di primo piano l’oggetto, l’essere inanimato, rimuove la centralità dell’uomo rinascimentale. Ancora una volta il barocco romano è anticipatore. Nell’epoca della fine di ogni certezza, dispersa nelle brume negli infiniti mondi di Bruno e Galilei, l’uomo non ricostruisce più lo spazio secondo le regole intellettuali e geometriche della rigorosa prospettiva rinascimentale, ma irrompe con prepotenza con forme al servizio della vista e dei sensi. Così il rito, la cerimonia, la pompa, sostituiscono la verità, restituendone solo l’illusoria, teatrale metafora. Eppure questa gigantesca eversione avveniva a Roma, nella città dove aveva sede il papato, l’incrollabile cattedra della fede unica, nella Roma della Controriforma che fu spietata con gli eretici e politicamente oppressiva. Ma se si rivendica all’arte una propria forza espressiva e risolutiva anche in campo etico, non v’è dubbio che nel barocco romano sono attivi e fecondi valori di libertà e di laicità, fondamentali nella formazione dello spirito e del relativismo moderni.


GENOVA - TEATRO CARLO FELICE

La BOHÉME

di Giacomo Puccini

Amarilli Nizza, poetica e incantevole Mimì nella favola della gioiosa e breve stagione della giovinezza.

Ah! Mimì, mia breve gioventù! E’ il verso bellissimo di Rodolfo a Mimì che ispira Augusto Fornari nella sua luminosa messa in scena di Bohéme. La quale lontana dal rigore filologico volto a ricostruire con calligrafica perfezione ambienti, abiti, arredi di quella pur splendida stagione bohémienne, capovolge i criteri di lettura dell’opera riuscendo a offrire uno spettacolo splendido e godibilissimo. Bohéme cessa di essere la storia in musica di Mimì, fanciulla soave ma tanto malata. Essa diventa esemplificazione di quella stagione della esistenza che è la gioventù, bella ma breve. Una stagione di ardori, di amori, di fiori, di sogni, di amarezze rimate in carezze, di dolci sospiri e ostentati tradimenti. Una stagione ricca di accadimenti e scoperte da potersi raccontare come una favola. Una favola avvolgente e gioiosa, colorata dei colori della fantasia, nella quale le geometrie sono sghembe, gli abiti sgargianti e surreali, le scene carillon roteanti, i personaggi simboli della giovinezza. Quella dorata stagione dominata dalla innocenza, dalla salubre spontaneità dei fanciulli non ancora contaminata dalle degradazioni del peccato. In Bohéme non v’è personaggio che possa elevarsi per atti e sentimenti lascivi o immondi, posseduti dall’ansia del potere, dalla lussuria del piacere, dalla concupiscenza della ricchezza. In essa brilla la luce della Divina Foresta di Dante, che qual caparra d’etterna pace, nella quale l’uom per sua difalta dimorò poco, per sua difalta in pianto e in affanno cambiò onesto riso e dolce gioco>. Dunque una sorta di Paradiso Terrestre dove tutto è luce, meraviglia e <dolce frutto>.

Così la luce intensa e calda che avvolge e amalgama l’universo scenico concepito da Francesco Musante appare tradire l’atmosfera di una soffitta che dovrebbe essere fredda, tetra e illuminata dalla livida luce di cieli bigi. Ma quella luce all’inizio così inquietante, diventa sempre più vera e rivelatrice. Nel suo raggio, la finzione del teatro si eleva ancor di più raggiungendo le dolci regioni del sogno, della rimembranza, del chiarore innocente del tempo dell’infanzia, presente e vivo nella memoria dei personaggi accompagnati ciascuno dal fanciullo che fu. Un tempo passato che nella soavità dei ricordi torna a essere presente nei costumi, nei giochi, nelle compagnie. Così la tristezza e le amarezze del tempo presente, nella povertà dei mezzi, nel freddo di una soffitta, nella mancanza di prospettive, nella ricorrente insolenza dei grampi di fame, si stemperano nella scanzonata allegrezza di quattro giovani intellettuali amabilmente burloni.

In quella soffitta, scrigno di memorie e di attese, irrompe una fanciulla, bella ma di una bellezza offuscata da una terribil tosse e dal languore di una malattia mortale: una giovane innamorata di uno di quei allegri compagni. E’ Mimì, gaia fioraia, che si nutre di sogni e di chimere. L’irrompere nella favola dell’amore di una fanciulla malata, attutisce il simbolismo della regia conferendole accenti e verità non più intravisti attraverso i colori del sogno, ma palpabili e dolenti. E’ una straordinaria invenzione di regia, cui risponde con consumato magistero l’avvincente canto di Amarilli Nizza. Con una ricchezza di movenze, con eloquenti modulazioni della voce, con perfetta fonazione, con sapiente dosaggio dei piani e dei forti, Amarilli Nizza rende tangibili i frequenti passaggi dalla favola alla verità e dalla verità alla favola. Il suo “se venissi con voi?” e la successiva risposta “..curioso!.” nel duetto con Rodolfo, sono cantate con una voce civettuola, che esprime con inoppugnabile verità tutta la fragranza e le pulsioni amorose di una fanciulla ormai adulta e tesa alla seduzione. Al contrario l’aria mesta e rassegnata “donde lieta uscì al tuo grido d’amore” è cantata con un senso di distacco, patetico racconto fiabesco di un evento quasi estraneo alla storia di Mimì. Nella scena finale invece raggiunge di nuovo vertici di verità, dalla quale invece estranea è ogni favola. L’andatura della cantante affaticata dai frequenti colpi di tosse; gli occhi segnati dalle tante lacrime sparse, i brividi che la tormentano, i singhiozzi, le note lunghe per l’affanno mortale, il suo “Piangi? Sto bene…Piangere così perché?” con cui consola Rodolfo, esprimono con la consapevolezza della fine, un dolore denso di sentimenti. Sentimenti tuttavia non di ribellione e blasfemi, ma sentimenti di una angoscia, pacata e profonda, che attestano un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Il languore con cui Amarilli Nizza lascia scivolare dal letto la mano di Mimì moribonda, lentamente, direi dolcemente, ha tutta la potenza espressiva del progressivo gelo di morte che tutta la invade. La Morte, l’impietosa livella che con sé porta la vita e con la vita tutta la fragranza della gioventù. Raccolti infatti su di un carro colorato e disperso nel buio della esistenza, tutti i personaggi fanciulli vengono condotti fuori scena, verso un mondo ignoto e senza ritorno.

Alla poetica interpretazione di Amarilli Nizza, non corrisponde una interpretazione di Massimiliano Pisapia (Rodolfo) ugualmente poetica e coerente con la intuizione registica. Una fissità in tutti i passaggi dell’opera, una inespressività del canto a volta apparso anche affaticato, un certo disorientamento nei duetti con Mimì, una irrilevanza quasi totale nel canto d’assieme, hanno offuscato una voce non priva di bei colori. Più che ispirato è apparso distratto dalla felice intuizione registica. Il suo Rodolfo è un poeta, ma dimentica di esserlo, mancandogli l’anima nobile, visionaria, vibrante nella bellezza inebriante delle rimembranze, nella gioiosa attesa della stagione dei fiori. Il suo mutismo tra l’incanto dell’incontro con Mimì nel buio di una soffitta e il dolore lacerante per la sua fine prematura, relegano negli spazi disabitati e polverosi uno dei personaggi maschili più ispirati della produzione pucciniana. Peccato! Assai meglio, seppure assai lontani dalla luminosa interpretazione della Nizza, gli altri interpreti maschili. Roberto Sérvile era il pittore Marcello. Le sonorità luminose che la partitura gli affida nel duetto con Musetta in reciproca, armonica tensione con le opposte energie di Mimì e Rodolfo, sono splendide pennellate che descrivono la trama corrusca e indefinibile della vita. Su tanta dovizia di materiale musicale avrebbe potuto costruire molto meglio il personaggio del pittore se forse le sue condizioni fisiche fossero state perfette. Christian Faravelli, il filosofo Colline, canta la sua aria Vecchia zimarra come dolente ma orgogliosa meditazione sui giorni lieti, trascorsi assieme da amici fedeli. La pienezza del canto da basso, in un dialogo immaginario, l’aristocrazia solenne al centro della scena, conferiscono al dolore dell’addio e alla fierezza di una onestà mai contaminata da ricchi e potenti, la commovente eloquenza di una serena, filosofica accettazione del soffio crudele della esistenza. Dario Giorgelè (il musicista Schaunard) seppur privo di parti solistiche ha dato prova di mezzi vocali ragguardevoli e ha offerto una interpretazione credibile e in armonia con l’allegra, ristretta compagnia. Alida Berti nei panni di Musetta ha governato la bella voce di una bella ragazza. Tuttavia il suo valzer al Caffè di Momus, nel quartiere latino di Parigi, nella interpretazione registica perde il senso che Puccini le ha affidato. La ammiccante atmosfera alla Belle Epoque, a quel mondo seducente nel rinnovato incanto di una nuova femminilità, che cerca di affermare il ruolo della donna-amante, corteggiata, inseguita, eroticamente inquietante, si dissolve nei meandri delle reminiscenze fantasiose e perde la irrompente forza di una testimonianza di un periodo storico inoppugnabilmente vero. Forse nel secondo quadro dell’opera la lettura registica di Fornari si allontana dalla visione di Puccini, che in quella lettura appare disperdersi.

Alla direzione musicale di Marco Guidarini va riconosciuto il non irrilevante pregio di essere stata fedele alla partitura pucciniana, senza tuttavia tradire la intuizione registica. Così l’orchestra straordinariamente ricca di colori ha dato vivacità descrittiva alle diverse scene con la bellezza di una musica impressionistica. Nei frequenti momenti di ripresa delle melodie del primo quadro, il risalto strumentale irradiato dal languore soffuso degli archi dava ragione e spiegava il perché la regia avesse privilegiato il racconto dell’opera come il racconto di una favola o di un sogno. Seppure a tratti troppo invadente la spazio fonico delle voci, la direzione è stata corretta, raggiungendo nel finale ritmo cadenzato degli ottoni lugubre e solenne, una forza espressiva di rara intensità emotiva.

Uno spettacolo coinvolgente che il pubblico ha apprezzato e premiato con applausi frequenti e alla fine scroscianti.