sabato 15 agosto 2009

Il fare è sterile senza il sapere, il sapere è sterile senza la carità

“Caritas in Veritate”

La dimensione sociale del mercato: né dono, né rapina
La “Caritas in Veritate” non è un trattato di economia, ma un documento teologico - pastorale che coerente con la Tradizione della Dottrina Sociale della Chiesa intende individuare la dinamica dello sviluppo umano stupendamente definito da Paolo VI nella sua Populorum Progressio (1967), i suoi limiti, “le sue distorsioni e attuali drammatici problemi” (n.21) e proporre soluzioni alla luce della “carità nella verità, (….) principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera” (n.1). Le sue argomentazioni si collocano nel punto di incontro tra le scienze sociali e l’antropologia cristiana avendo ancora, e sulla scia della Centesimus annus di Giovanni Paolo II, come riferimenti “il mercato, lo Stato e la società civile” (n.38).
Pur riconoscendo la parzialità della scelta e la limitatezza della riflessione, la lettura del documento avvincente e complesso si sofferma qui solo sull’analisi del concetto di mercato.
L’enciclica, nel sottolineare come “senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica (n.35)”, indica una chiara visione di cosa debba essere una “economia sociale di mercato”. Delinea un sistema economico assai lontano da logiche dirigistiche e statalistiche, incentrato invece sul libero scambio e su una concezione del mercato che, riconoscendo la propria fallibilità, si apre alla solidarietà, alla fiducia “alla gratuità come espressione di fraternità” (n.34). Un mercato infatti concepito in chiave meramente produttivistica e utilitaristica e nel quale la persona non è considerata nella sua integrità, col tempo si manifesta come uno strumento rapace, capace di assicurare solo uno sviluppo consumistico e materialistico. Al contrario, in una economia sociale di mercato, che assume la cultura delle regole come dimensione di civiltà, l’uomo con la sua azione, la sua creatività e la sua capacità di innovare viene posto al centro dei processi attraverso cui essa si realizza, fino a divenirne il fine. Perché questo avvenga però, il mercato non basta a se stesso. Esso necessita di un’etica, “di comprensione unitaria e di una nuova sintesi umanistica” (n.21), esso necessita di ordinamenti giuridici, di sistemi di controllo sociale extragiuridici; necessita di un sistema di interventi pubblici capace di perseguire efficacemente gli interessi civili dei singoli. Di strumenti cioè i quali operando all’interno del sistema economico possano intervenire in chiave sussidiaria al fine di rendere fluidi e trasparenti gli ingranaggi del libero mercato. Per esso occorre infatti che da un lato siano accresciute la fiducia e la correttezza tra gli operatori e sia garantita la coesione sociale, dall’altro che sia scongiurato il rischio che nella trama delle relazioni di scambio l’uomo venga ridotto a mero contraente e venga defraudato del valore intrinseco che gli è proprio indipendentemente da ciò che egli è in grado di scambiare.
I prodotti finanziario-assicurativi elargiti per distribuire il più possibile i rischi derivanti dall’erogazione del credito, la delocalizzazione industriale concepita non come strumento di solidarietà ma come sfruttamento a fini produttivi di manodopera a basso costo, le politiche pubbliche di incentivazione ai consumi delle famiglie (si consideri la sciagurata vicenda dei mutui subprime) finalizzate all’aumento del PIL anche in condizioni di assenza di crescita demografica, la perversa concorrenza al ribasso tra ordinamenti giuridici in ambito sovranazionale specie in materia di diritti sociali, le politiche di deregolamentazione in settori sensibili come la finanza e il credito, l’assenza nel diritto globale dell’economia di un soddisfacente equilibrio tra valori economici e valori non economici, agevolano l’uso di strumenti distruttivi del mercato e producono le degenerazioni di un’economia lontana e del tutto disancorata dalla gioiosa logica del dono, che è invece immanente nell’economia sociale auspicata da Benedetto XVI. Così tutti quanti sono chiamati e posti nelle condizioni di riflettere sulle possibilità di elaborare una strategia per uscire dalla attuale crisi economica con una prospettiva parzialmente diversa rispetto a quella con cui si è soliti analizzarla. Benedetto invita ad abbandonare quella concezione che vorrebbe l’economia affrancata dalla morale e che nega l’utilità della politica, delle istituzioni e delle regole per il corretto funzionamento del mercato. Riconosce certo che nell’esperienza degli Stati nazionali, quando ancora i confini dello Stato e quelli del mercato coincidevano, non sempre la politica ha dato prova di saper governare l’economia senza lasciarsi inquinare dalla tentazione dirigistica. In modo analogo, non sempre le regole sono state in grado di promuovere la libertà economica, assicurando un’efficace tutela degli interessi pubblici. Ma quando le caratteristiche dell’economia post industriale e la globalizzazione hanno sancito la inadeguatezza di questo modello, si è venuta a creare una situazione di ingovernabilità del sistema economico e di eccessiva conflittualità intersoggettiva. Situazione solo in parte riconducibile alla frammentazione dei pubblici poteri il cui intervento si basa sempre più su meccanismi e procedure non democratiche e avulse dal circuito della rappresentanza politica. In tale mutato contesto, l’affermazione di un sistema di valori spiccatamente egoistico e l’insufficienza a promuovere il corretto funzionamento del mercato dei tradizionali strumenti giuridico-istituzionali, tra i quali la finanza pubblica e la disciplina dei mercati finanziari, hanno permesso che nel mercato globale si facesse largo una visione economicistica dell’esistenza. Visione dalla quale è scaturita una dissacrante confusione tra il fine che è la persona e i mezzi che sono l’economia. Perciò, se da un punto di vista culturale e antropologico occorre soffermarsi sulla necessità di rinnovare il “contratto sociale” (n.37) su cui si fonda il capitalismo, da un punto di vista giuridico-istituzionale occorre avviare una riflessione su quali possano essere i mezzi attraverso cui nonostante la globalizzazione e la persistente frammentarietà degli ordinamenti giuridici, si possa assicurare al mercato l’esercizio della virtù della “giustizia commutativa non disgiunta da una giusta dose di giustizia distributiva” (n.35), senza la quale la prima non può essere esercitata. Si tratta, dunque, dell’affascinante tema della governance dell’economia globale e del problematico rapporto tra politica, diritto e mercato. E’ in questa rarefatta atmosfera concettuale, oltre che pastorale, che emerge un’affermazione di grande valore propositivo: “Non si tratta solo di correggere delle disfunzioni mediante l’assistenza. I poveri non sono da considerare un fardello, bensì una risorsa anche dal punto di vista strettamente economico” (n.35). In queste riflessioni sono presenti tutti i temi affrontati da Giovanni Paolo II nelle encicliche “Sollicitudo rei socialis” (1987) e “Centesimus annus” (1991). Argomenti che spinsero alcuni commentatori dell’epoca a parlare di un capitalismo a piedi scalzi che ricorda il “capitalismo popolare” di Luigi Sturzo.
La soluzione individuata in conformità con la dottrina del defunto pontefice non può che essere l’attuazione “dei principi di sussidiarietà e solidarietà”(n.57). Giovanni Paolo II provò la complementarietà dei due principi, provando come fosse impossibile concepire la sussidiarietà prescindendo da una comprensione altrettanto profonda della solidarietà e quindi della giustizia sociale. E’ questo il tema trattato nel paragrafo 35 in merito alla complementarietà del mercato rispetto ad altre dimensioni della vita sociale. Scrive Benedetto: “Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici” (n.35). Il mercato dunque viene presentato come la più alta forma di collaborazione tra persone che non condividono necessariamente gli stessi fini. Esso si fonda sul principio contrattualistico della reciprocità. Esso ovviamente non è né dono né rapina, ben sapendosi che la vita degli uomini non si risolve nel mercato. Relegare tuttavia il mercato alla sola “equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare”. “Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica.” (n.35).
La “soluzione personalista-relazionale” proposta da Benedetto XVI, il tema dell’esercizio della giustizia commutativa non disgiunto ma nella pratica associato alla virtù della giustizia distributiva incontra allora il principio di solidarietà sul terreno del principio di sussidiarietà e ne dà compimento. A tale compimento si oppongono tuttavia ostacoli che occorre rimuovere. Il mercato per Benedetto XVI vive e prospera in forza di virtù come l’onestà, la fiducia, la simpatia, ma non è in grado di crearle da solo; e, se pur dovesse crearle, lo farebbe grazie alla misura in cui i soggetti che vi operano scelgono di vivere secondo virtù e così facendo, pur senza averne l’intenzione, finiscono per agevolare i meccanismi del corpo sociale. Scrive infatti Benedetto XVI: “E’ interesse del mercato promuovere emancipazione, ma per farlo veramente non può contare solo su se stesso, perché non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità. Esso deve attingere energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle” (n.35).
Benedetto XVI sembra ripetere che non esiste il “mercato allo stato puro” (n.36); e che è sterile soffermarsi sugli stili economici. Il mercato è un sistema relazionale, la cui dimensione “civile” è data dalla capacità dei regolatori di individuare con metodo cooperativo, partecipativo e democratico le procedure che consentano a chi in esso opera la condivisione delle medesime regole. Per il rispetto di tali regole è condizione necessaria, sebbene nella logica antropologica espressa dalla dottrina sociale della Chiesa non ancora sufficiente, predisporre un sistema di istituzioni nazionali e sovranazionali che ne salvaguardi la certezza e la trasparenza operativa, avendo a cuore l’ampliamento dei margini di libertà integrale degli operatori. Ampliamento che è il presupposto indispensabile per ogni forma di sviluppo.
In definitiva, la critica di Benedetto ai sistemi economici non si comprende al di fuori del dato antropologico “che il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona nella sua integrità” (n. 25), e dell’implicito rifiuto dell’assunto secondo il quale l’uomo è libero se è libero dall’idea di Dio. Quello antropologico è il vero problema della filosofia cristiana contemporanea e della dottrina sociale, anche se troppi interpreti lo sottovalutano, riducendo così gli insegnamenti della Chiesa a mere visioni sociologiche ad uso di particolari visioni politiche, non di rado estranee alle intenzioni de magistero ecclesiale. Scrive Benedetto VI: “Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali” (n. 4). Appare con chiarezza che oggetto della critica al paradigma economico dominante non siano la proprietà privata, il mercato o il perseguimento del profitto, che Benedetto XVI, in sintonia con il suo predecessore invece analizza e ridefinisce, quanto la loro riduzione a fattori puramente materialistici. Le attività economiche invece, al pari di qualsiasi altra dimensione dell’agire umano, non si realizzano mai in un vuoto morale o in un mondo virtuale, ma all’interno di un ben definito contesto culturale, le cui matrici possono anche essere misconosciute e disprezzate. Ma quando un sistema sociale nega il valore trascendente della persona umana in ambito politico, economico e culturale si rivela da se stesso come disumano, e merita di essere criticato: “Non può avere solide basi una società che […] si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata” (n. 15). In tale prospettiva, una sana e salubre economia di mercato è sempre limitata da un ordine giuridico che la regola e da istituzioni morali, come ad esempio la famiglia e la pluralità dei corpi intermedi, che interagiscono con essa, la influenzano e ne vengono influenzate.
L’ormai irreversibile crisi degli Stati nazionali, la frammentazione dei pubblici poteri, il nuovo rapporto tra società e diritto, la sussistenza di un articolato insieme di norme e di regole, le contestuali intersezioni fra diversi ordinamenti giuridici nazionali e sovranazionali carenti di qualsiasi forma di regolamentazione, devono spingere i Governanti verso il rafforzamento anche politico di una costituzione giuridico-istituzionale del mercato globale, favorendo il bilanciamento fra la libertà dello stesso e i valori extra economici il cui rispetto è essenziale per uno sviluppo equilibrato degli scambi e delle regolazioni in ambito sovranazionale. Nell’impossibilità di immaginare la creazione di un stato globale, una soluzione possibile e forse più efficace sarebbe quella di dar vita a una vera e propria costituzione economica globale capace di imporre poche e semplici regole a presidio degli interessi generali e del mercato stesso e di impedire che la concorrenza tra ordinamenti dia luogo a una corsa al ribasso, causa prima dello stravolgimento di ogni e qualsiasi valore e tutela della persona. In questo nuovo contesto giuridico- istituzionale gli Stati nazionali e, per quanto ci attiene, l’Europa sarebbero chiamati a intervenire, attraverso gli strumenti a propria disposizione, in chiave sussidiaria e conforme al mercato con l’unico fine di assicurare quella tutela della dimensione integrale della persona che ottusamente è mancata nelle economie chiuse come in quelle globalizzate.
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