lunedì 19 ottobre 2009

La Santa sulla scopa

Teatro Ghione
Amara e sorridente riflessione sugli eterni dilemmi delle donne

La storia delle donne è la storia del loro sangue, è la storia di coscienze e delle loro lotte interiori, e soprattutto è la storia di una utopia. Così la narrazione di Luigi Magni dell’incontro di una presunta strega e di una suora malgrado se stessa, si snoda come un viaggio verso la culla delle pulsioni profonde. E’ la narrazione di una avventura dell’anima, intessuta di luci e ombre, di cielo e terra, di estasi e pulsioni erotiche, avvolta da atmosfere che sanno ora di incanto e malia ora di incredulità e dolore. Magni esprime al meglio la propria visione della dimensione della salvezza, rifugge da ogni retorica e da ogni infingimento. E riesce così a rappresentare la realtà, dura e scabrosa, in tutta la sua nudità, velata sempre dal fascino del sogno che la riscatta e la redime. Gli stati d’animo delle protagoniste, in un gioco sottile che affascina i sensi e soggioga l’emozione, si incontrano e si confrontano, si intrecciano e si sciolgono, si infiammano e si placano, dipingendo uno stupefatto affresco dalle infinite sfaccettature della donna.

Le quali ricondotte alla loro eterna essenza rinviano o a una sola aspirazione, inoppugnabile e fatale: la maternità e l’ansia di realizzarla attraverso l’atto di concepimento o a una sola condanna: la sua negazione e con essa la rinuncia imposta allo stesso atto. Non v’è nella storia delle donne nulla che nella loro ottica non riconduca a tale aspirazione, e nulla che nella visione degli uomini non le destini a tale missione e compito. La maternità. La quale in quanto procreazione è stata sempre considerata dalla Chiesa attivo contributo alla creazione, mentre la sua negazione e la destinazione al chiostro delle fanciulle da sempre è stata considerata la scelta risolutiva per lasciare intatte le sostanze ai primogeniti maschi.

Tale verità sperimentata è ripresa magistralmente da Magni con una rigorosa ambientazione temporale, geografica e stagionale. E’ il tempo della Controriforma, il tempo più buio forse della Storia della Chiesa durante il quale i Demoni e le loro pompe, risorse soprannaturali, erano invocati come attori diretti del male degli uomini e dei loro peccati. Nella seconda metà del ‘500 dunque e nella notte più magica e tenebrosa dell’anno, quella di San Giovanni Battista a cavallo del solstizio d’estate. Notte nella quale si credeva che il cielo della città eterna, centro della Cristianità e Capitale del Potere temporale della Chiesa, si popolasse di spiriti maligni e presenze demoniache e che le streghe si radunassero per innalzarsi in volo alla volta di un sabba plenario: l'incontro tra di esse e Satana; notte di profanazione e delitti, di omicidi e attività malefiche, di licenziosità e atti sacrileghi, atti tutti di devozione e fedeltà al demonio che in cambio concedeva loro poteri magici, mostruosi ed eccezionali. Quei poteri per i quali al succedere di disgrazie, le streghe accusate di averle provocate erano condannate al rogo. Tale insano viaggio verso il demonio poteva venire interrotto dal suono di campane se questo avvenisse casualmente al passaggio delle streghe. Una forma superstiziosa e bigotta per inserire nella leggenda della stregoneria anche il potere benefico e purificatore della religione e delle sue forme esteriori: lo stormire delle campane.
Nel pieno della Controriforma e con sullo sfondo la cornice di questa notte oscuramente magica, Magni ambienta la storia di una umanità viva, la storia dell’incontro di due donne che assurgono a simboli della primigenia complessa essenza di ogni donna: in apparenza strega o monaca, condannata a morte oppure santa, in realtà ciascuna nostalgica di un mondo intravisto nelle visioni chiesastiche o nelle fantasie di fanciulle ma mai goduto. Così Apollonia, la Suora Santa, ingabbiata nella sua tonaca, plagiata al punto di farle credere che il suo vero amore fosse solo quello per Cristo, avverte la violenza di una scelta di vita forzata e sperimenta sulla sua pelle frustrazioni e rinunce e soprattutto la mancanza dell’amore, del tepore di una mano fredda che riscalda il cuore, la mancanza di un uomo. Mancanza che rende la vita dietro le grate insopportabile, vuota e senza speranza di una maternità. Al racconto falso ma verosimile dei rapporti di concubina del diavolo della strega Silvestra, avverte i turbamenti dell’attrazione fisica, scopre le emozioni di promesse struggenti e colma il suo disperato bisogno di amore con fugace rapporto saffico. E immagina di dare vita alla vita in un sogno paranoico in cui Silvestra la asseconda. Ma alla luce non dà un bimbo, dal suo grembo esce solo una pupattola di stracci mortificanti, che tuttavia lei con trasporto d’amore accarezza e culla, mentre Silvestra risponde alla chiamata della Morte. Impreparata. Come tutti, come sempre.
Il testo teatrale di Luigi Magni, magistralmente dà vivacità e dinamicità al racconto, sollecita la meditazione su alcune delle tematiche esistenziali più intime e profonde, coniugando con sapienza il divertimento con la riflessione amara, il sorriso con la commozione, la realtà con il sogno, il falso puttanesimo di Silvestra con il falso monachesimo di Suor Apollonia.

Sandra Collodel, è attrice di consolidate esperienze teatrali e tuttavia ancora in possesso di una stupefacente freschezza recitativa, nella dizione, nel gesto scenico, nelle modulazioni della voce. Notevolissimi i suoi passaggi con la voce cavernosa del demonio, seppure sottesi da una fonia registrata. La evoluzione di Suor Apollonia da suo primo incontro con Silvestra fino alla immaginaria ninna nanna al suo bimbo, acquista nella sua interpretazione e nella dominante tonalità del nero la tragica luminosità del quadro di Goya: La Sabba delle streghe. Struggente il suo finale nell’ombra di un palcoscenico che chiude la sua finzione, ravvolta sul cumulo di stracci che culla come suo bimbo.

Franca D’Amato, attrice o doppiatrice di navigata esperienza nel ruolo di Silvestra, ricca di flessioni fonetiche nel copioso lessico romanesco di Magni e di capacità di interpretazione con una tavolozza di gesti sempre aderenti al testo, dà voce e verità scenica a una strega sognante e realistica, a tratti volgare ma intimamente pura e virginea, costante maestra di vita di Suor Apollonia, ingenua, nostalgica e esistenzialmente afflitta dalla mancanza di amore. Anche lei particolarmente struggente nel suo finale accostarsi alla Morte, con un addio alla vita che appare come liberatorio dalla schiavitù dell’esser nata.

Due atti che fluiscono rapidi e impetuosi, grazie anche alla regia impeccabile di Massimiliano Giovanetti, che affascina il pubblico e lo cattura con una sequenza di emozioni altalenanti ma sempre coinvolgenti.

Uno spettacolo di Grande Teatro, per il quale non si sarà mai abbastanza grati al Teatro Ghione, alla cui sapienza nessuna lode sarà mai abbastanza adeguata.