venerdì 31 luglio 2009

CALLE GOYA

TERME di CARACALLA
Carmen

Superba messa in scena del capolavoro di Bizet
Mettere in scena la Carmen, una storia d’amore e morte, che tocca i vertici più alti della drammaticità, è operazione assai complessa. L’opera è un tsunami di musica trascinante e avvincente che attraversa villaggi, paesaggi soleggiati, gole montagnose appena illuminate dalla luce dell’alba, atmosfere di festa e quotidianità scontate, uomini e donne nelle abitudini e nei sentimenti più alti e più protervi, più miti e più ribelli. E in tale attraversamento porta con sé tutto in un fluire continuo di melodie, ricco di colore nei motivi pittoreschi e folkloristici, nelle danze popolari e nelle canzoni, traboccante di impeto, di ardore, di contrasto fra le esotiche danze zingaresche e l’incalzare drammatico dell’azione. Per descrivere tale universo animato e non, Bizet si avvale di una tavolozza di colori orchestrali stupefacente, già impiegata nel fastoso preludio per introdurre i temi fondamentali dell’opera: la corrida ”la “fête du courage, la fête des gens de coeur”, il torero “celui qui vien terminer tout” celui qui frappe le dernier coup!, e quello tragico del destino della protagonista annunciato da clarinetto, fagotto e corno sul tremulo acuto degli archi.
A tale uragano di musica, la direzione del M° Karel Mark Chichon dà un nitore, una luminosità, una eloquenza rarissime, tuttavia aderenti alla stupenda tessitura fonica del libretto, ricchissimo di rime alternate, esterne e interne, di versi liberi con oscillazioni continue tra misure canoniche e vistose ipermetrie. Rime coinvolte nel gioco delle ripetizioni che avvalendosi degli effetti fonici e delle parole tronche a fine strofa, conferiscono al testo e alla azione scenica una valenza ossessiva e perfino allucinante: “c’est toi?”/ c’est moi. “…laisse-moi / te sauver../, et me sauver avec toi”. “Je sais bien que tu me tueras, / (…)Non, non, non, je ne te céderai pas”.

La Carmen di Elina Garança, soprano lettone dalla voce calda, pastosa e possente, è civettuola, seducente e prorompente in tutta la sua carica erotica nella voluttuosa habanera del primo atto, dalla sensualità fiammeggiante nella danza con le nacchere della séguedille, funerea nell’Aria delle Carte, apparentemente spavalda ma umanamente atterrita, eroina delle tragedie classiche, nell’epilogo finale. Il suo “Tiens” nella scena ultima, non è la frase lunga, aggressiva o spregiativa solitamente cantata, ma una nota quasi sussurrata a testimonianza di una resa con terrore paralizzante alla ineluttabilità del destino. Così la Garança consegna alla storia delle interpretazioni di Caracalla una Carmen memorabile, una Carmen che è fuoco, elemento di calore e di distruzione, sovvertitrice dell’ordine precostituito con il disordine delle passioni, gitana inebriata dalla libertà: Comme c’est beau la vie errante / pour pays l’univers, … / et sourtout la chose enivrante, / la liberté! La liberté! “Libre elle est nèe et libre elle mourra”; ma atterrita e paralizzata nella imminenza della morte.
Walter Borin in possesso di uno strumento vocale non esuberante, risente le non poche difficoltà della partitura e nello sforzo di essere vocalmente credibile, perde l’orientamento nella adesione al canto della parola e della gestualità. Il suo Don José è appena abbozzato. Difficile leggere attraverso il suo canto e la sua recitazione la tragica progressione che dal personaggio del primo atto tutto legge e amore filiale “Ma mére, je la vois..”, nostalgico del suo paese ”doux souvenirs du pays!...vous remplissez mon coeur / de force et de courage” lo porta alla disfatta, all’epilogo violento e risolutivo. L’Aria del Fiore, la più esaltante aria per tenore dell’intera opera, stupenda descrizione del dilemma lacerante di Don José tra il maudire (maledire), détester Carmen e le seul désir, le seul espoir di rivederla, aria di vellutata dolcezza e delicato lirismo, è resa senza afflato, senza adesione del canto alla lacerata introspezione con cui il soldato prende coscienza della propria inadeguatezza a vivere un’esistenza separata da Carmen e di essere ormai in suo totale possesso: une sole chose di lei. Anche nella scena ultima, la voce e la recitazione forse risentono di un affaticamento psicologico prima che fisico. Così nell’incalzante duetto con Carmen, il dialogo che in rapida successione dalle effusioni liriche dell’esordio dopo il gelido e sprezzante rifiuto della gitana porta all’annientamento di entrambi, perde tutta la sua potenza distruttiva e priva l’atto ultimo della pugnalata omicida di tutta la sua universale eloquenza.
Dario Solari non possiede acuti potenti e luminosi, ma il suo intonare a freddo e a pieni polmoni la celeberrima Chanson del Toreador è maestoso e virile, arrogante e narcisico, compiaciuto del suo ruolo di prima stella dell'Arena, del coraggio che la sua arte comporta, esaltato dalla certezza che mentre combatte un paio d'occhi neri lo osserva e alla fine della corrida l'attende l’alcova. La autocoscienza di Escamillo di possedere notorietà e prestigio si riflette correttamente nella ironia e nella supponenza con cui risponde a Don Josè nell’unico duetto in cui si scontrano i due rivali. Dall’incedere aristocratico e fiero, nel pieno della sua lussureggiante tenuta da torero, quando giunge all’arena di Siviglia colma di luci e di colori, è festosamente accolto dalla folla di spettatori che riprendendo il suo stesso tema lo salutano inaspettatamente come aimable alcade, amabile giustiziere. Vanitoso, seduttore, le sue dichiarazioni d’amore a Carmen prima del combattimento, sottolineano compiutamente la fatuità del personaggio, e tuttavia la sua straordinaria forza di attrazione. Un Escamillo dunque dal fisico e dalla voce idonei alla non eccelsa statura drammatica e musicale che Bizet gli assegna, ma dalle elevate capacità di seduzione e presenza scenica.
Ermonela Jaho, ha voce e capacità di recitazione assai adatte a creare il personaggio di Micaela. La dolcezza del suo lirismo profuso con dovizia di mezzi e una tecnica di emissioni stupefacente, descrivono un personaggio che dalla marginalità solita si eleva alla esemplarità di emozioni e sentimenti universali: il candore e la purezza di spirito a fronte della cruda passionalità di Carmen, la soavità discreta nel dichiarare il suo amore, sentimento sacro e intimo, l’abbandono sereno alla protezione di Dio di fronte agli artifizi maligni del demone della bellezza ostentata e offerta senza reticenze: “Toute seule j’ai peur, mais …./Vous me donnerez du courage/, Vous me protégerez, Seigneur”. In tale incantevole melodia la Jaho dà prova di una padronanza del lirismo e del legato e di una agilità nell’ascendere con voce eterea senza esitazioni o forzature verso le altezze dell’acuto finale. Una tra le aree più commoventi e convincenti della rappresentazione di Roma, che riabilita la convenzionalità e marginalità con cui di solito è descritto il personaggio di Micaela. La sua elevazione, tra il silenzio e la maestosità delle montagne, in una pagina di rarefatta contemplazione trasmette allo spettatore il bisogno di un lavacro purificatore e il senso di quella pace che solo la dea Luna fa regnar in cielo.
Un cast dunque non certamente stellare, ma che a ragione ogni teatro lirico sarebbe orgoglioso di avere a disposizione.
Se la parte musicale e recitativa ha le tante luci e le poche ombre descritte, diverso e senza ombre è la parte visiva curata dal regista Renzo Giacchieri. Tutta la poetica di Carmen, della corrida come festa del coraggio, della mitologica lotta dell’uomo contro il toro, esemplificazione dell’eterna lotta contro l’iniquità del Male, rende la caratterizzazione spagnola della musica non accessorio coloristico, ma parte integrante e necessaria. La Spagna creata da Bizet è il luogo della psicologia umana, il luogo della passionalità e dell’istinto, dei conflitti primari e primordiali: Amore e Odio, Libertà e Leggi, Maschio e Femmina, Ordine e Brigantaggio. Ed è in questi dualismi, in questa duplice connotazione dell’ambiente e del clima dell’azione, e dell’analisi psicologica dei personaggi che va ricercata l’universalità dell’opera di Bizet e dei due caratteri di Don José e di Carmen. Con i costumi delle sigaraie, dei gendarmi, dei briganti o del popolo festoso all’arrivo del torero e del corteo di trombettieri, quadriglie e alguazils –arbitri della corrida-, con i colori pieni e lussureggianti della Andalusia assolata, con la ricchezza delle movenze brillanti ed esotiche ispirate al folklore spagnolo, Giaccheri crea uno sfondo ai personaggi di incomparabile e superba bellezza. Alla somma armonia della musica, alla musicalità della metrica del libretto, Giaccheri aggiunge una fastosità di costumi, movimenti, danze, colori e luci che da sola farebbe già spettacolo.

Una messa in scena dunque indimenticabile, che onora il Teatro dell’Opera, che esalta i suoi Maestri d’orchestra, in particolare i fiati e gli ottoni, la sua Direzione Artistica e le sue maestranze dietro le quinte. Uno spettacolo che al pubblico in gran parte non italiano, offre la possibilità di rimuovere pregiudizi e incrostazioni livide sugli italiani e la loro capacità di offrire cultura e cultura di livello. Dopo l'ascolto di tale rappresentazione non si può non affermare con Nietzsche che Ascoltando la Carmen si diviene noi stessi un capolavoro.

sabato 25 luglio 2009

55° FESTIVAL PUCCINI 2009

TURANDOT

Il Mistero della tensione eroica verso la Verità

Le difficoltà di una messa in scena e di una interpretazione vocale e musicale di quella luminosa meraviglia che è la Turandot, sono legate non solo alla impervia partitura dell’opera, ma alla necessità di sviluppare secondo le intenzioni del librettista Simoni un’opera capace di dare credibilità umana seppure nella cornice di una fiaba a un dramma dell’esistenza eterno e misterioso: la ricerca della Verità, intima, individuale, indefinita. E’ la forza che spinge ciascuno a tentare l’impossibile pur di poter scoprire il mistero racchiuso in sè, pur consapevole della probabile sconfitta e della conseguente morte certa. E’ la forza dirompente che tutti spinge verso l’ardito tentativo di superare se stessi e indovinare impossibili enigmi. E’ la tragedia immanente dell’uomo che lascia i suoi affetti, le sue certezze, il suo mondo per inseguire la Verità, la divina bellezza, il sogno, la meraviglia come Turandot viene descritta dal Principe Ignoto. E’ la legge dell’Essere nel mondo degli spiriti immortali, di quanti sono capaci di “sciogliere enigmi”. “Popolo di Pekino, la legge è questa”: chi “di sangue regio”, chi nobile di spirito e di intelligenza, intende avere come pura sposa Turandot, deve sciogliere degli enigmi. E’ la legge del destino che premia con il possesso della Verità chi non teme di affrontarla. Solo in pochi sono capaci di lasciare la saggezza popolare, le consuetudini consolidate del mondo senza avversità e senza sfide, gli affetti, l’amore domestico, la pietà del vecchio padre per dedicarsi a tale somma sfida della quale l’alternativa alla sconfitta è la morte. Da tale assai probabile destino il popolo cerca distogliere l’ardente Principe “Pazzo, la porta è questa della gran beccheria” . “Qui tutti i cimiteri sono occupati”. Si esprime così la coscienza del fallimento cosmico come vissuto e sofferto dai poveri di spirito arresi di fronte all’ardire sovrumano di uno Straniero che chiede soltanto di scoprire la Verità e il mistero di se stesso. Uno Straniero che non arretra di fronte al dolore e alla solitudine del vecchio genitore che lo interroga : “Figlio, che fai?” “Ti perdi?”, “Vuoi morire così?” e al quale con coraggiosa rassegnazione risponde: “Questa è la vita, padre!” “Vincere padre, gloriosamente nella sua bellezza!” Uno Straniero che rinuncia all’amore dolcissimo e terreno di Liù, e che al suo richiamo: “Signore, ascolta, Deh, ascolta, Liù non regge più” risponde: Nessuno più io ascolto, io vedo il suo fulgido volto! La vedo. Mi chiama! Essa è là. La Verità. “Forza umana non c’è che mi trattenga. Io seguo la mia sorte”. Non è la Morte tremendamente ostentata da teschi e orrendi attrezzi di tortura a scoraggiare il Principe, ma è la Vita dal fulgido volto, ad attrarlo. La Vita che è Verità dell’Essere maestosamente ma gelidamente e crudelmente simboleggiata da Turandot: “No la vita. Ogni fibra dell’anima ha una voce che grida:Turandot.” In tale primo atto c’è la quasi totalità della Turandot. Come una parabola evangelica, la cornice fiabesca è pregna di un significato altissimo e quasi religioso. Puccini già prossimo alla fine avvertiva oltre i canoni estetici dell’opera, il senso del mistero che lui stesso racchiudeva, interrogava la coscienza, regina abissale, ignota, dalla quale trarre tutto quello che serve per decidere che cosa sia l’azione e cosa siano l’inazione e la rassegnazione. Turandot fiaba dunque, parabola, che come altri miti della mitologia rievoca e racconta il folle volo del Principe, verso l’ignoto, come l’Ulisse di Dante.Tale impeto sacrale del Principe dai toni cupi e solenni, assai lontani dalla leggiadra leggerezza della fiaba di Carlo Gozzi, tale atmosfera da tragedia, pregna di incognite nella inesorabile conflittualità di un uomo solo contro un popolo che lo scoraggia e affetti cari che lo implorano di desistere, si impongono evidenti dalle prime note e dall’intreccio di melodie, di esotismo e drammaticità con il quale l’autore apre il primo atto. E tale conflittuale vicenda si snoda lungo tutto l’arco del primo atto fino alla sequenza finale, nella quale la musica esplode in un avvolgente concertato dando sostanza musicale alle emozioni, alle paure e agli sgomenti di tutti i personaggi. Personaggi atterriti e soggiogati dalla follia “furente” ma incompresa del Principe che fedele al suo intimo richiamo suona il gong e dichiara apertamente di voler sfidare la sorte, non temendo ma invocando Turandot, Turandot, Turandot. Dopo la chiara impostazione del tema nel primo atto, gli atti successivi danno sostanza e poesia al tema posto. Nella tremenda aria di Turandot “In questa reggia or son mill’anni e mille,..” c’è la spiegazione della sua apparente crudeltà. Del suo gelo. Con essa Turandot rinvia alla memoria dei secoli e del tempo “il grido disperato di una ava dolce e serena, che regnava in gioia pura” il grido che attraversando “stirpe e stirpe” si rifugiò nella sua anima. Una crudeltà dunque non legata a una offesa subita, ma a un bisogno di riscatto da un peccato originale, senza il quale lei, la Verità sarebbe accessibile. E gli stessi enigmi sono coerenti con tale visione. Gli enigmi posti sono: -La speranza, “che tutto il mondo invoca, tutto il mondo implora, che sparisce, svanisce, dispiega le ali sulla nera infinita umanità, ma che ogni notte rinasce nei cuori". La Speranza, una delle virtù più alte, definita da Dante attesa sicura della gloria futura, incontro con l’Eterno, incontro con la Verità. E poi il sangue: fiamma, come febbre di impeto e di ardore che l’inerzia tuttavia tramuta in languore. Senza tale febbre di impeto e di ardore, nello sfinimento del languore non v’è vittoria, ma il “viver come bruti”. E infine Turandot stessa, la Verità ambita, "candida e oscura", la quale è gelo che però dà fuoco e dal fuoco prende più gelo. La Verità che innamora, ma che si allontana quanto più appare essere carpita. E il Principe pur sciogliendo gli enigmi, ne è tenuto lontano perché la Verità è sacra: “Tua figlia è sacra” e non può essere donata “come schiava morente di vergogna”. Alle soglie della Verità perseguita contro le sollecitazioni del popolo e contro l’amore devoto del padre e l’amore dolce della schiava Liù espresso col gesto semplice e spontaneo di un sorriso; alle soglie della Verità ma da essa respinto il Principe in un ultimo disperato approccio propone che il suo nome sia scoperto e pronunciato prima dell’alba. E’ la metamorfosi fondamentale dell’opera. Colui che cerca la Verità, pare averla raggiunta e si trova ancora respinto, accetta quale ultima sfida per possederla che il mistero racchiuso in lui sia svelato. Invoca il tramonto delle stelle e attende l’alba quale nuova stagione dell’essere, quale esordio di una nuova era. E’ l’ultimo scontro tra due mondi: l’anima calda del Principe e il corpo gelido della Principessa, la passione dell’uno e la ragione dell’altra, il mistero di dentro e il potere di fuori, il reale e l’irreale; il privato e il pubblico, il soggetto e l’oggetto. In tale conflitto perenne e irrisolvibile, appare una figura candida, ultima nella gerarchia della società, schiava e ignorata, che tuttavia per una trasmigrazione di conoscenza che è la magia della poesia, è la sola depositaria del mistero racchiuso nel Principe. Non v’è alcun momento nel quale si possa cogliere la fonte della conoscenza di Liù. Il sorriso del Principe “in un lontano giorno” appare circostanza assai poco probabile a trasmettere la verità di una identità. Tuttavia Liù predice a Turandot l’amore tenero e terreno come il suo, testimonianza di una umanizzazione della Verità gelida e fonte di lutti. Con la morte di Liù e le sue esequie sottolineate da uno struggente assolo dell’ottavino, quale ultimo lunghissimo respiro verso l’ultima dimora, l’incanto dell’opera pucciniana si conclude. Puccini è morto. A fronte della potenza innovativa del primo atto, la tensione si smorza, le idee melodiche sono terminate. A fronte di tanta dovizia di melodie sostenute da un testo ricco di armonie stilistiche e di simbolismi, il finale di Franco Alfano è lento, incerto, inevitabilmente banale, improbabile tentativo di riempire un vuoto ormai incolmabile per concludere la vicenda del Principe Ignoto e della Principessa di gelo con il rituale lieto fine. La morte della dolce Liù non costituisce solo l'epilogo della produzione pucciniana, ma soprattutto il capitolo finale di quel genere melodramma, dominato da quell'inscindibile connubio musica e libretto di cui il Maestro lucchese fu l'ultimo e forse il più grande e geniale esponente.
Di tanta stupefacente bellezza non c’è traccia nella messa in scena a Torre del Lago. La scontata e passiva regia di Maurizio Scaparro attestata sulla staticità dei personaggi e del coro, si riscatta assai per poco nella luce accecante con cui fa il suo ingresso Turandot. La Verità che non si lascia vedere per la potenza della luce che irradia. Del tutto marginale e non meritevole di menzione la sciatta orchestrazione di Valerio Galli, spiegabile forse con la giovanissima età e la totale inesperienza a dirigere opere di tale portata. Il coreano Francesco Hong è Calaf. Pur forte di una lunga esperienza nel repertorio pucciniano, sul piano della recitazione offre una prestazione poco convincente, la quale con azioni sceniche inespressive e prive di aderenza al testo e alla melodia, con modulazioni della voce inesistenti, è assai lontana dall’illuminare la complessa personalità del Principe. In una partitura così travolgente ed impervia la voce appare assai affaticata fino a emissioni più simili a grida che a note acute. Lo stesso dicasi della giovanissima Elena Popovskaya, nei panni di Turandot. Un esperimento prematuro quello di affidare a una giovane cantante un ruolo di tale difficoltà e con tanti illustri precedenti a confronto. Una esperienza utile per capire ciò che non va fatto. Dal naufragio quasi totale del cast millantato come il migliore esistente per tale opera, si eleva la voce melodiosa del soprano Donata D’Annunzio Lombardi (Liù), abile nelle sfumature di volume e nei vibrati, la quale con il canto e una intensa e coerente gestualità rende appieno la fragilità e lo struggente coraggio della schiava Liù, personaggio marginale dal punto di vista narrativo, ma la cui aria prima del suicidio è una delle pagine più impegnative e commosse di Puccini, cantata con un trasporto lirico avvolgente che eleva lo spirito dello spettatore verso la meditazione di quella "notte che non ha mattino"e dà ragione a chi ritiene Liù una delle creazioni più alte e ispirate tra le eroine pucciniane. Assai convincente e in linea con la sventurata vecchiezza del personaggio Timur, Alfredo Zanazzo, navigato interprete di ben altri ruoli in ben altri tempi.
Dunque scialba messa in scena del capolavoro pucciniano e, se si estranea la dolce D'Annunzio Lombardi, intollerabile interpretazione.