mercoledì 25 novembre 2009

La Puglia di Annunziata Sgura

STORIE di DONNE

Dolente percorso nei luoghi della coscienza dove si consumano le lotte interiori della donna tra pregiudizi e aneliti di riscatto

Annunziata Sgura già affermata poetessa, e poetessa fino ai più intimi anfratti della ispirazione spirituale, abbandona la poesia in versi per consegnarci una poesia in prosa. Una transizione voluta per dare vita e luminescenza poetica alle tante storie della sua terra, necessitanti di un racconto compiuto, sequenziale, in cui i personaggi nascono, studiano, si incontrano, si innamorano, si amano, si tradiscono, si abbandonano, partono, muoiono. Storie di donne e dei loro calvari più idonee a una narrazione in prosa che non in versi. Eppure la intima natura di poetessa non l’abbandona in quest’opera, ritornando assai di frequente poesie autentiche nello stile delle meditazioni in versi: “Voglio volar lontano/almeno sulla luna/incendiarmi di luce/e cercare i nidi dell’anima, /all’unisono con la natura che cantava l’alleluja dell’estate”, e soprattutto in una prosa nuova. Una prosa che tralasciando il racconto di fatti, di frequente si sofferma sulla descrizione di paesaggi, di meditazioni, e scende nell’erebo dell’Io a raccogliere la poesia della vita. E quando il racconto di eventi e accadimenti riprende, la prosa è scattante, fatta di periodi brevi a sbalzo, o periodi più lunghi ma in una successione di aggettivazioni che hanno la stessa intrinseca forza di versi: “I cafoni di sudore, il rito della semina, il grano che scendeva, il solco come culla, la spiga che saliva a catturare il sole, la falce a tagliar la messe, la madia imbiancata e la massaia vestale a profumare il forno e a consacrare il pane.
E’ con questi strumenti di poesia che la Sgura illumina di luce implacabile la realtà ancestrale della sua terra di Puglia, realtà gonfia di pregiudizi, di falsi pudori, di miserie materiali e spirituali, di moralismi bigotti di chi facendosi scudo della chiesa calpesta il vangelo e gli insegnamenti dell’amore. Quella terra di Puglia abbracciata dalla parola nell’incanto descrittivo di terra tatuata dall’impronta di Federico, superba di cattedrali, scolpita a tacco da mano invisibili, lambita da acque di zaffiri, che l’accarezzano nelle sinuosità delle coste, come se la terra e il mare, qui, divenissero amanti. Nella sontuosità di tanta poesia in prosa, dai lidi del sogno e dai luoghi della memoria riaffiorarono intatte sensazioni e immagini per divenire storie autentiche, sofferte, di donne irretite nella implacabilità dei loro destini. Destini diversi, amari, tuttavia accomunati dalla stessa insopprimibile vocazione verso l’amore e la maternità: perché tutte le donne sono madri, anche quelle che non hanno mai avuto un bimbo attaccato al seno. Così il destino di Cietta divenuta pazza di dolore per il tragico destino della figlia lacerata dal suo fattore nell’alcova del sopruso e della violenza e di un bimbo venduto per coprire lo scandalo, si associa al destino della piccola Rosa, la quale devastata nelle gambe da un incendio domestico, si vede negare il diritto all’amore e alla vita con la condanna alla clausura, l’unico tristo rifugio alle ragazze non più maritabili. Condanna iniqua, generatrice di intime confessioni e di turpitudini consumate tra monache loro malgrado, accomunate da un destino di povertà e miseria e dal rossore delle loro gote vergini. Nel racconto della storia di Rosa la Sgura raggiunge vertici di dolente poesia nel racconto che contrappone la solenne e iniqua liturgia della tonsura dei capelli e della vestizione, con la drammaticità del peccato consumato nella prigione delle grate all’insegna di una santità falsa e sguaiata.
Storie di donne è uno scrigno di storia dell’umanità femminile nella sua inesausta tensione verso il riscatto, uno scrigno denso di pietà ma lucido nella speranza. Si è quasi devoti di fronte a un affresco ricco delle infinite tonalità cangianti con cui l’Autrice conduce il lettore attraverso paesi e paesaggi incantati della terra di Puglia: poveri deschi di poveri e lussuose tavolate di blasonati, oscuri tuguri e soleggiate residenze, aie e aiuole, piccolezze e pettegolezzi di paese, odori e profumi, costumi e riti religiosi, vecchi dipinti a masticare pipa e ricordi, transumananze di fanciulle ingaggiate per la raccolta di olive o sui campi da arare o nelle vigne da vendemmiare. In tale maestoso disegno si legge la costante sollecitazione alla meditazione degli eroici sforzi di ogni protagonista nello spasimo struggente di riscatto da schiavitù ataviche. Opera di sovrana bellezza: una bellezza non mendace, illusoria, superficiale e abbagliante fino allo stordimento, una bellezza che nel racconto delle tante debolezze della carne non sfocia nella oscenità e che nella trasgressione fugge nell’irrazionale o nel mero estetismo. Ma una bellezza che schiude il cuore del lettore alla nostalgia, al desiderio profondo di andare verso l’Altro e verso l’Oltre. Un desiderio tradotto in vivida speranza nell’estrema, lirica dolcezza con cui nel finale è descritto il pianto di Diletta al ricordo di Daniele, suo amore impossibile perché suo ignoto fratello: “ma dopo il pianto venne la luce, finalmente fuori dalla notte. Fuori dal pozzo in cui un giorno era caduta anche sua madre e sua nonna e la sua bisnonna e tutte le donne dalla creazione in poi. Finalmente Daniele poteva volare alto nel cielo degli angeli”. Un finale solenne e maestoso come una cattedrale, col quale la speranza si lega indissolubilmente alla bellezza e la trasfigura nella visione e nell’attesa dell’Eterno.

venerdì 20 novembre 2009

Il POTERE e la GRAZIA

Affascinante mostra a Palazzo Venezia

Illuminante e stupendo percorso iconografico tra potere politico e potere della santità

Una mostra per tutti, credenti e non credenti che sentono il fascino della storia dei rapporti tra Cesare e Dio, Impero e Cristianesimo, tra Stato e Chiesa, nella raffigurazione narrativa di Maestri sommi. Opere immortali di Mantegna, Tiziano, Caravaggio, Tiepolo, Van Eyck , Memmling, Altdorfer, Lorenzetti, Beccafumi, Luca Giordano, Guido Reni e pezzi non facilmente visibili, come il “San Nicola arcivescovo di Mira” proveniente dal museo Tret’jakov di Mosca, sono esposti con cura e analisi storica e stilistica da lasciare i visitatori assorbiti in rarefatte atmosfere meditative. Ma al di là della sommità degli autori e della qualità delle opere, la mostra è affascinante nella sua intenzione di ripercorrere sentieri di fede ignorati e trasmettere certezze non accolte da tutti. La prima delle quali è la secolare matrice cristiana dell’Europa che urge evocare oggi mentre si discute del futuro del Vecchio Continente, nella sua illusione di poter divenire se non il centro della storia, come fu nel suo medioevo imperiale, ancora una fonte di valori e ispirazione con cui confrontarsi. Una autorevolissima introduzione al catalogo esplicitamente deplora la “tecnocrazia” attuale, senza memoria e senza identità, che con quel passato glorioso e fecondo vorrebbe rompere, ritenendolo retaggio oscurantista e origine di tutti i conflitti tra Stato e Chiesa. Il significato della mostra invece è quello di esaltare il felice incontro tra le due immense risorse di pensiero e di azione, possibile e avallato dai tanti santi protettori disseminati su tutte le nazioni d’Europa. Si legge poi nella mostra l’intento di provare la grande varietà di tipologie della santità. Ai tanti cui esse appaiono uguali, omologabili una all’altra, si testimonia la intima diversità dell’essere santi: santi mitici, ipostasi di esigenze spirituali, da san Sebastiano a san Giorgio e san Martino, Patrone dei poveri, assimilati forse agli eroi o agli dei dell’antichità; santi divenuti tali per la loro umana e concreta opera, da san Francesco a santa Caterina da Siena a san Luigi dei Francesi; figure come Cirillo e Metodio, giganti del pensiero pur prescindendo dalla loro santità. Visitando e rivisitando tanta affascinante tipologia si è spinti a chiedersi che senso abbia o possa avere oggi la santità. La mostra accuratamente presenta opere dell’Ottocento simbolista, raffigurazioni di una santità che appare però nascere da una esigenza estetica, leggendosi in esse echi decadenti poco consoni ad una autentica religiosità. E allora la constatazione amara è che forse da allora la santità è un calice vuoto, cui nessuno pensa di abbeverarvi l’ispirazione. Se la mostra fosse stata sul rapporto tra arte e fede si sarebbero potuti ammirare Manzù, Fazzini, o il famoso crocifisso di Dalì: nessuno dei quali però, come altri che avrebbero potuto esprimere il proprio ingegno, ha trattato il tema della santità e della sua incidenza nelle vicende del mondo. Sarebbe legittimo osare affermare che l’arte moderna rifugge dal concetto stesso di santità, sente anzi l’ipotesi della epifania, dell’apparizione del santo fonte di disturbo, inconciliabile con la manifestazione artistica e il suo linguaggio. E’ l’effetto della laicizzazione di una società che non riserva né posto né funzione alla figura del santo, se non in una forma di devozione populista inadeguata ad esprimere paradigmi universali, quali furono le opere di san Francesco, di Santa Caterina da Siena o di san Luigi dei Francesi.
Leggendo invece gli scritti e la vita dei Santi ci si rende conto di quanto la storia d’Europa debba al cristianesimo. In ogni senso. I santi non furono solo uomini di Dio, di preghiera, di carità. Sono stati, in ogni tempo e in ogni paese, anche grandi civilizzatori; “umanisti” ben più straordinari dei filologi della età rinascimentale; personaggi storicamente ben più influenti di Alessandro Magno, di Cesare, di Napoleone. Amorevolmente ignorando la infermità mentale dei giudici di Strasburgo, non può non constatarsi che nella storia europea non v’è quasi nulla di significativo, di duraturo, che non sia sorto all’ombra della croce: l’arte, le cattedrali, le scuole, gli ospedali d’Europa. L’idea di eguaglianza, di dignità umana, hanno origine e fondamento lì, in quell’uomo-Dio appeso a un legno, segno di speranza, di vittoria sulla morte e sul peccato, testimonianza della Misericordia di Dio. Segno e testimonianza che hanno generato imitatori potenti, colpito uomini straordinari, ispirato santi che sarebbe giusto non relegare solo nel circuito degli studi teologici.

venerdì 13 novembre 2009

di Fabrizio Bancale

TEATRO LO SPAZIO
OMBRE di GUERRA
Tragica e disperata meditazione sulla eterna condanna dell’uomo

“La Guerra ci sarà sempre, anche quando non ci saranno più nemici, perché allora i nemici si troveranno in casa”.
“Gli uomini fanno le guerre per celebrare i propri eroi: i morti, i reduci, gli invalidi, gli orfani”.

Sono alcune delle riflessioni di Fabrizio Bancale sulla eterna, ineludibile condanna dell’uomo che è la Guerra. La Guerra come nel racconto poetico della caduta di Troia, o nella narrazione documentata e tragica della Guerra tra Atene e Sparta nel Peloponneso, la guerra nelle infinite forme registrate dalla Storia. La guerra condanna inesorabile dell’uomo perché espressione della sua stessa sostanza, effetto e causa del mistero della iniquità che lo pervade ineluttabilmente. La guerra fredda nella sua durezza, sempre con effetti funesti ai quali non sfugge né colui che la usa, né colui che la soffre. La guerra che colpisce l’anima la cui umiliazione non è né mascherata né avvolta di pietà e che non offre all’ammirazione nessun essere ferito dalla degradazione della sventura. Il pensiero della giustizia non illumina la tragedia e mai interviene. E seppure il sentimento della miseria umana è una condizione della giustizia e dell’amore sotto l’imperio della guerra non è possibile né amare né essere giusti. Chi ignora fino a qual punto la volubile fortuna e la necessità tengono ogni anima umana alla loro mercé, non può considerare suoi simili né amare come se stesso quelli che la guerra con un abisso ha separato da lui. Sventura sovrana, la Guerra, ad esprimere la quale nessuna definizione potrà apparire adeguata.
L’Autore ha la forza d’animo di proporre allo spettatore di non mentire a se stesso; riuscendo così a toccare un alto grado di lucidità, di purezza e di semplicità. L’uomo non protetto dalla corazza della menzogna, non può patire la guerra senza esserne colpito fino all’anima. Gli uomini ritroveranno il genio epico quando sapranno credere che nulla essendo al riparo dalla morte, arriveranno a non invocare mai la guerra, a non odiare i nemici e a non disprezzare gli sventurati. Ma è dubbio che ciò sia prossimo ad accadere.
Sul tema di tali tremende verità si snoda il racconto di due giovani fratelli, vittime della guerra. Un racconto che descrive con un crescendo di rapimenti onirici una stupenda parabola. La quale partendo dalla storia di due eventi bellici, la morte temuta ma non provata della loro madre e la esecuzione di Dragan fratello di un soldato, si eleva alla meditazione alta e solenne della cosmica tragedia di tutte le guerre, di tutte le mutilazioni fisiche e affettive che esse generano, alla sconsolata meditazione della follia devastante dei popoli che le combattono, della privazione della innocenza degli uomini che esse producono. Ogni dopoguerra infatti segna per tutti la fine dell’età dell’innocenza. Da tale tragica esperienza se ne esce sempre con un cumulo di macerie e di fantasmi che collocano lo spirito in una dimensione spettrale. In quella dimensione nella quale realtà e sogno si mescolano, ricordi e ebbrezze trascorse divengono visioni consolatrici, e l’immagine del tempo passato diviene risorsa ristoratrice che dissipa la paura, ridà vita ai caduti, speranza ai dispersi e splendore al paesaggio innevato. Dopo tale elevazione verso la cosmica tragicità della guerra, l’opera di Bancale descrive la parabola discendente verso il dolore individuale, tangibile, sordo, del soldato che nella guerra ha perduto un fratello, giustiziato sotto i suoi occhi. Fratello del quale con ossessione ritorna a ripercorrere il cammino dell’odio che lo ha ucciso, dell’addio con nelle pupille l’istante vivido e nitido in cui il cranio è crivellato e degli spruzzi di sostanza cerebrale esplodono per tracciare forse per sempre le mura di un servizio pubblico.
Tutto lo spazio scenico immaginato da Maddalena Marciano, e le luci che lo attraversano di Marco Ponticiello , tutti gli effetti audio di Italo Todde che echeggiano in esso, non hanno alcun riferimento ad alcun tempo, ad alcuna stagione, ad alcun paese. La Guerra non ha né volto, né tempo, né collocazione geografica. La Guerra è da sempre e per sempre. Di tutti e per tutti. La Guerra è la condanna inesorabile e definitiva del peccato d’origine. Sirene, scoppi di granate, macabre luci di incendi trasmettono l’angosciante sensazione di essere immersi vittime sacrificali nella immane, inutile strage della guerra. Angosciosa diventa in tale atmosfera la storia tutta individuale e intima del giovane soldato cui la guerra non ha donato un eroe ma sottratto un fratello lacerato nel cranio. Angosciosa e agghiacciante nella straordinaria interpretazione che di quel ricordo ne fa David Paryla.
La totale adesione del gesto scenico alla parola, le cangianti sfumature della voce modulata secondo l’intensità del racconto e del ricordo, la complessa ma completa gestualità con cui dà vita al giovane soldato orfano del fratello, l’adagio di alcuni movimenti seguiti da altri più rapidi e scattanti, rinviano alle somme armonie dei Tempi di un Concerto. Forse non a caso è con il finale energico del Concerto per violino di Brahms che cala il sipario. Di fronte alla bravura indiscussa dei suoi compagni di scena, la interpretazione di Paryla raggiunge vertici di insolita grandezza.
Lo avevamo visto e ritenuto grande già ne La Locandiera, in Romeo e Giulietta, in Amleto, nel Sogno di una notte di mezza estate, ne La Dodicesima Notte. Protagonista in opere somme e immortali David Paryla aveva provato doti naturali di mimica, di dominio totale dei mezzi espressivi, di controllo saggio del respiro, di straordinarie modulazioni nella vocalità sì da annunciare l’arrivo sui palcoscenici di Roma di una figura nuova, avvincente e versatile. Una autentica stella nel firmamento del teatro di prosa, così ricco di stelle apparenti e mediatiche, così povero di stelle luminose splendenti di luce propria.

Roma, novembre 2009