domenica 25 luglio 2010

Torre del Lago PUCCINI


Madama Butterfly

Il miracolo di un naufragio evitato grazie alla umile grandezza di Amarilli Nizza
Il simbolismo metafisico e onirico, la trasformazione del cantante in "espressione scultorea vivente"; "il vuoto della scena come comunicazione simbolica di Butterfly con il mondo esterno", erano minacciosi nembi cumuliformi che avrebbero portato al naufragio la rappresentazione di un'opera tanto perfetta e tanto popolare, da non permettere manomissioni o interpretazioni arbitrarie e autoreferenziali. La grande regia d'opera, da Pallavicini a Visconti, da Zeffirelli e Eduardo, da Strehler a Ponnelle, ha con umiltà e rigore filologico cercato di mettere il proprio talento al servizio dell'opera, e non si è servita dell'opera per realizzare impalcature sceniche, costumi, fondali, quali fedeli pronunciamenti di autonomi e indesiderati teoremi filosofici. Sciagurata regia quella di Vivien Hewitt la quale alla verità scenica ha tolto quasi tutto, solo per assecondare la voluttà di tale osceno simbolismo tradotto in immagini dallo scenografo giapponese Kan Yasuda nella totale freddezza dell’inutile residuo dell'avanspettacolo, il grande sasso del primo atto, e dell’ ancor più stravagante e prussiana porta con colonna centrale appena sospesa sopra la terra, "a rappresentare lo spazio quasi inimmaginabile attraverso il quale lo spirito di ogni essere umano dovrà passare dopo la morte per ricongiungersi con l’universo spirituale". E' assai arduo cogliere il nesso tra Butterfly e questo filosofeggiare del rapporto tra spirito umano e universo spirituale, che la regista tenta di spiegare nelle sue Note di regia. Ancora più arduo e certamente denso di insana concupiscenza l'oltraggio alla stupenda storia di Butterfly perpetrato attraverso il minimalismo del teatro No. Ridurre la casa della fanciulla dagli occhi pieni di malia, a una passerella, esaltazione del teatro del No, spegnere le luci sulla protagonista per accendere i lumi di indefinite sacerdotesse, durante lo stupendo coro muto, è violenza suprema. E' stupro impuro, inverecondo e inorridente. Uno spazio vuoto, è vuoto seppure si voglia dare senso al vuoto. Il nulla è nulla seppure se ne voglia attribuire dignità e peso. In uno spazio vuoto non v’è vita, non v’è amore, stupore, attesa, fede, sacrificio. Eppure la signora Hewitt pretende di spiegare il vuoto della scena come comunicazione simbolica di Butterfly con il mondo esterno che la distruggerà. Quanta fantasia inutile e bugiarda. Quanta poca conoscenza dell’opera, e quanta presunzione nel voler sottomettere alle proprie simboliche visioni del teatro del NO, un’opera che invece è viva e palpitante. Viva della metamorfosi di una piccola fanciulla sottratta ai postriboli di Nagasaki, la quale rinuncia ai suoi dei e ai suoi costumi, credendo di riscattarsi verso una cielo pieno di stelle, un firmamento di amore. Metamorfosi ben diversa e antitetica al teatro NO conclamato.

C’è tuttavia una mancanza ancora più grave e più respingente nella regia e nei costumi della Butterfly 2010. Trattasi della armonica sintonia necessaria tra direzione d’orchestra e direzione degli interpreti. Appare respingente e irritante la totale diversità di vedute e di lettura di un’opera che non ammette ambiguità tra impostazione registica e impostazione orchestrale. E’ avvenuto invece che mentre l’orchestra fedele alla interpretazione della signora Eve Queler, privilegiava la riproduzione di una atmosfera tutta orientale, nei ritmi, nell’uso degli ottoni occlusi, del bong, la regia privilegiava costumi occidentali stile ‘800, assai lontani dalle atmosfere orientali create dall'orchestra e ancor più lontani dalla verità poetica della fanciulla di Nagasaki.
In una navicella destinata a sicuro naufragio causa una regia così caparbiamente ostentata, c’è un albero che riesce a tenere la tempesta e salvare lo spettacolo consegnando agli spettatori le emozioni attese e meritate. Tale albero ha un nome: Amarilli Nizza, interprete forse unica di Butterfly nell’attuale panorama delle voci pucciniane. La sua interpretazione pur menomata da una regia distruttiva che molto le ha sottratto della mimica scenica, vedasi il coro muto e il successivo interludio, ha raggiunto livelli difficilmente eguagliabili per la bellezza della voce, della adesione rigorosa del canto al testo, per la infinite modulazioni con cui ogni singola frase musicale, ogni singola parola, ogni singola vocale viene pronunciata con una intensità comunicativa coinvolgente. Basti citare il suo il canto al suo ingresso, “io sono venuta al richiamo d’amor, ….ove s’accoglie il bene di chi vive e di chi muor”, o lo stupore con cui canta nella sua notte d’amore “dolce notte quante stelle, non le vidi mai si belle!”. Un quante in cui la voce si dilata verso l’infinito di un mondo nuovo che raggiunge le stelle. Un mondo sognato e finalmente raggiunto nella breve illusione di un riscatto dalla povertà, dalla umiliazione di vivere nei postriboli e fare la ghescia per sostentamento. Un canto soave per i velluti della voce, che passa con agilità e incanto dalle invettive contro il console che le suggerisce di sposare il ricco Yamadori, alla delicatezza del duetto con Suzuki nel preparare e prepararsi al ritorno di Pinkerton fino al sofferto dolorosissimo addio al suo piccolo Iddio,
perché non gli rimorda ai dì maturi il materno abbandono.
Di fronte a tale livello di canto e di interpretazione, tutti gli altri personaggi Massimiliano Pisapia (Pinkerton), Renata Lamanda (Suzuki) Fabio Capitanucci (Sharpless) appaiono generosi, ma lontanissimi dalla perfezione interpretativa della Nizza.
A noi spettatori, vanno riconosciuti il privilegio di aver potuto apprezzare l'umiltà cui la signora Nizza si è sottoposta alle stravaganze registiche, ascoltare il suo canto, piangere delle sue lacrime, e la gioia di poterne ancora raccontare. Solo a personalità come lei è dato di poter tener viva l’opera lirica. Saremmo tentati di dire che non sono i decreti e le risorse che fanno la bellezza di una rappresentazione, ma sono le bellezze delle voci e la rinuncia a costose stravaganze registiche che generano risorse e demotivano i decreti.
Manlio Mirabile
fm.mirabile@libero.it

giovedì 1 luglio 2010

Ultima scellerata avventura libresca di un “secredente” storico

NEL SEGNO DEL CAVALIERE

di Bruno Vespa

Fare del giornalismo parlato, del giornalismo scritto e poi voler essere scrittori di storia è una ambizione troppo grande per un piccolo personaggio quale è Vespa, lontano dal sommo Montanelli che si astenne a ragione dal giornalismo parlato. Vespa è del tutto privo di una lingua italiana che possa affascinare, attrarre, interessare, descrivere. Povero nell'eloquio, è ancor più povero di idee. Le uniche di cui dispone sono quelle trasmesse dai diversi interlocutori e messe assieme senza nesso e senza logica. Provate a capire dal suo racconto perché fallì la Bicamerale, o perché Berlusconi non vinse le elezioni nel 2006. Provate a capire il lodo Mondadori, o il lodo Alfano, il processo Mills o le diatribe con Fini. Sarete delusi. Troverete (per ca. 800 volte, 2-3 volte a pag.) un ingorgo di "mi disse, mi raccontò, mi confermò, mi.....ecc.". Un ingorgo di citazioni, di parole, di date, di ore, di personaggi, di mestieri dei personaggi, di mestieri dell'epoca dei fatti e di mestieri successivi. Riferimenti del tutto irrilevanti ai fini del racconto. Raccolta indifferenziata di dati e date, episodi e pranzi, incontri segreti e scontri pubblici, che non spiegano nulla di quella che con poca credibilità e molta presunzione chiama ...una storia italiana.
Basterebbe trascrivere i virgolettati dei racconti fatti dagli altri, e tutti sarebbero autori del libro di Vespa. Una paccottiglia ambiziosa e raggelante, ultima inutile autopresentazione di una inutile collana di testi offensivi della lingua italiana e della intelligenza dei lettori. Forse un solo merito si può riconoscere a Vespa e una sola gratitudine gli si deve: aver provato infallibilmente come non si debba scrivere un libro in italiano. Tanto meno se di storia.

Infelice colui che per casualità o per improvvida scelta vivrà l'infausta avventura di leggere un testo così sciagurato, che umilia il lettore, rende la Storia di tre lustri e di un uomo, un labirinto occluso colmo di tele e ragnatele senza significato, e fa della lingua italiana uno scempio così totale e devastante.