martedì 20 dicembre 2011

LEIPZIGER OPERNHAUS

MACBETH

di Giuseppe Verdi

Con la magia di un canto di scultorea bellezza nella più cupa e sgomenta opera di Verdi e grazie a una vibrante interpretazione, Amarilli Nizza si rivela la più ispirata, completa e affascinante Lady di questi anni.

La immensa grandezza del Macbeth di Shakespeare risiede nel meraviglioso racconto di temi come la solitudine, la paura, l’angoscia, l’allucinazione, l’ambizione, che si intrecciano e si riflettono in un complesso gioco di psicologie contrapposte. Temi che trovano una sintesi sovrana nel tema del Male. Il Male che esemplificato nella sfrenata, libidinosa ambizione di potere, è descritto nel suo cammino distruttivo, analizzato nella sua natura e negli strumenti con cui inonda di iniquità l’intera vicenda umana. Il Male che assume forme tangibili e comunica paurosamente le potenzialità negative dell’animo, illumina le forze tenebrose che scatenandosi possono dischiudere l’angosciosa prigione di dubbi, di paure, di allucinazioni nella quale ciascuno può annientarsi.
Ma pur se esplorato nella sua cosmica dimensione, il Male rimane tema non fine a se stesso. La sua analisi e rappresentazione diventano analisi e rappresentazione della Storia colta nella sua tragica sussistenza: continuo conflitto di opposti nello scontro delittuoso cui l’uomo e le sue idealità sono perennemente condannati. La conflittualità e la contrapposizione violenta sono difatti i pilastri di tutta l’opera. Come il Male è contrapposto al Bene, così il Cielo è contrapposto all’Inferno, il naturale al sovrannaturale, il giorno alla notte, l’azione alla inazione, la realtà alla allucinazione, gli uccelli della notte a quelli del giorno.
In una foresta di malvagità così folta è lecito chiedersi quali siano le forze da cui tante malvagità traggono origine e ispirazione: sono le forze aberranti e distruttive interne all’uomo, che lastricano di furore e di sangue, di rivoluzioni e di guerre il cammino della Storia, o sono Potenze infernali esterne e invisibili che lo attraggono con falsi ed equivoci vaticini e lo conducono alla perdizione perpetua? E’ il Macbeth un dramma di speranza o disperato?

La risposta proposta dall’allestimento di Lipsia è il ricondurre il Male del mondo al disegno malefico di forze esterne allo spirito umano. Forze occulte che con malvagia irrisione trasformano la Storia in un funesto gioco di annientamenti progressivi. Forze indecifrabili, ambigue, bolle eteree, come le Streghe asessuate cui Banquo si rivolge insicuro “dirvi donne vorrei, ma lo mi vieta quella sordida barba”. Forze nel dominio delle quali entrano via via le menti in un groviglio di condizioni, che sottraendo a ciascun personaggio la sua propria percezione dell’essere e svuotandolo della propria identità, lo trasforma in una sorte di burattino esecutore incosciente di azioni e misfatti da lui stesso incompresi. Così la realtà si fa pura immaginazione e ogni azione è resa farsa di un racconto di un povero idiota, vento e suono che nulla dinota!
Uno spettacolo messo in scena già nel ’99 e che nella rottura di assetti registici tradizionali, intende rendere testimonianza alla tumultuosità degli avvenimenti successivi alla caduta del Muro di Berlino. Evento che germogliato a Lipsia con il cumulo di macerie ideologiche e di simboli, con la fine di una menzogna, il rovesciamento di valori, la crisi di ogni rappresentazione che ambisse a descrivere la mente con la sola forma, aveva completamente rigenerato la spiritualità e la genialità creativa di ogni artista. Così il Macbeth di Peter Konwitschny diventa un teatro dei burattini, nel quale le baldorie irridenti delle Streghe si trasformano in un’orgia di assassinii simulati, morti apparenti, resurrezioni improvvise, banchetti di sesso, e si concludono con l’esultanza corale come di liberazione da un incubo trascorso. Straordinario e coinvolgente è infatti il sublime coro Patria oppressa cantato non come aspirazione ma come obiettivo raggiunto, commovente ricordo della patria non dolce madre conversa in un avel, ma madre che al venir del nuovo Sole accoglie nel suo grembo sposi e prole in un canto di vittoria che illumina i cuori e le menti, così come le luci di sala che progressivamente si accendono sugli spettatori.

Uno spettacolo che seppur datato di 12 anni, riesce a trasmettere tutto il fascino geniale ed eloquente con cui fu concepito. Merito delle maestranze ma soprattutto dei due interpreti principali Amarilli Nizza (Lady Macbeth) e Marco di Felice (Macbeth) che hanno saputo cogliere l’originalità della intuizione del regista e ad essa uniformarsi nella voce e nella azione scenica. Soprattutto Amarilli Nizza la quale ha profuso la sua voce con purezze e misura di accenti nelle fasi di lirismo, è stata vertiginosa nelle cabalette pur sempre attenta e rigorosa nella adesione del canto alla parola e della parola al momento psicologico. Il suo Che tardi? esprime tutta l’impazienza dell’ascesa al trono, mentre la “a” lunga e aperta di Ascendi a regnar trasmette lo stupore di fronte alla titubanza imbelle dello sposo a compiere una azione che ha come premio nulla meno che il regnare. Inquietanti la mimica e la dizione della frase Duncan sarà qui?...qui? qui la notte? con cui Lady Macbeth rispolvera la mente e prova la maturazione del disegno di uccidere il re Duncan. Tremenda la successiva invocazione Or tutti sorgete ministri infernali, la cui complicità potrà incorare il suo sposo a impugnare il pugnale senza tremori. Magica, di una magia contagiosa ed elettrizzante, nel duetto successivo alla uccisione del Re. All’orrore di Macbeth nel guardarsi le mani insanguinate e al suo tormento per non aver pregato con le guardie, risponde ripetendo tre volte Follie! Tre frustate al burattino fanciul vanitoso che nel ricordo dell’assassinio ha perso il sonno, teme ogni rumore, trema di fronte a ogni ulteriore azione criminosa. Altra e alta poesia interpretativa è la meditazione La luce langue,…. meditazione solitaria e solenne che le note lunghe dilatano nello spazio cosmico e che atterra nella constatazione della necessità di nuovi delitti. Con una ricchezza di movimenti corporei e smorfie facciali, esaltati dall’inseguimento della corona che le rotola lontano, esprime la voluttà del possesso del soglio e dello scettro. Il canto e le fonazioni quasi sillabate, sono i sintomi della decomposizione della mente non ancora compiuta ma prossima al culmine della follia autodistruttiva. Prima di tale momento tuttavia la regia concepisce la scena del banchetto sul catafalco di Banquo. Se le allucinazioni di Macbeth possono rendere visibile il fantasma di Banquo, il suo catafalco può essere reso credibilmente il gran tavolo del banchetto imbandito per l’ascesa al trono di Macbeth grazie all’assassinio del Re Duncan. Nella ripresa del brindisi per dar senso al canto Folleggi e regni qui solo amor su di esso Konwitschny scatena con una danza con pochi veli la sensualità blasfema della Lady. In tale danza ispirata forse all’espressionismo di Otto Dix nella dovizia e nei colori dell’abbigliamento, caricata di espliciti riferimenti erotici, Amarilli Nizza raggiunge uno dei momenti più esaltanti dell’opera in cui canto e recitazione si fondono in un connubio eloquente del medesimo gaudio orgiastico del potere e del sesso. Gaudio da cui l’angoscia delle apparizioni di Banquo definitivamente emargina Macbeth, irretito nella sua impotenza e nel bisogno di interrogare ancora le streghe sul suo futuro. La follia di Lady Macbeth progredisce ancora e si scatena negli insulti Vergogna, signor, Spirto imbelle! mirabilmente scagliati dalla Nizza quasi parlando, in una esplosiva miscela di apparente coraggio e autentico terrore. Un terrore che sembra dissiparsi nel racconto delle streghe che assicurano Macbeth Te non ucciderà nato da donna e ancora più rassicurante Invitto sarai finché la selva di Birna contro te non mova. Un racconto che la Lady attende con impazienza e quasi impone con l’incalzare del Segui pronunciato tre volte con un crescendo di imperio quasi ascesa alla certezza che l’impresa iniziata col sangue, nel sangue si compirà e lei sarà regina per sempre. Ma è una rassicurazione che si trasforma immediatamente nel delirio di altri stermini, dopo la confessione di Macbeth che l’apparizione di Banquo gli ha pronosticato che la sua stirpe regnerà. L’orgia di assassini e di sangue raggiunge il parossismo e sottrae alla Lady la lucidità dell’essere. Svuotata del tutto, con gli occhi spalancati ma non vedenti, appare tetra in volto, una testa dondolante come bambola abbandonata dal burattinaio, un incedere verso una destinazione indefinita e una pallida candela in mano a illuminare un cammino di distruzione. Nella solitudine della notte, in un soliloquio che pare voglia misurare l‘abisso dell’ignoto e purificarla dalle infamie sanguinose, ripensa con stupore Chi poteva …tanto sangue immaginar, e cerca una qualche forma di impossibile consolazione. Nella alienante follia trova ristoro nella banale constatazione che dalla fossa chi morì non surse ancora. Frase ripetuta due volte e la seconda volta con accentuata irrisione, quasi a deridere delle sue paure e della fatuità del credere nella capacità di agire di chi giace ormai nella fossa. Così consolata, recita ma non canta Andiam Macbetto, chiudendo la sua parabola esistenziale con la stessa recitazione con cui aveva esordito nella lettura della lettera Nel dì della vittoria,….

Così con la magia di un canto di scultorea bellezza nella più cupa e sgomenta scena di un'opera ancor più cupa, Amarilli Nizza conclude la sua interpretazione di Macbeth provando d'essere la più ispirata, completa e affascinante Lady di questi anni.